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Il 20 settembre, da noi, è arrivato tardi

Bonmassar Vincenzo

Nel pieno di un revanscismo clericale mozzafiato, si è sollevato un flebile segnale di richiesta di celebrazione del 20 settembre. Non ricordo chi avesse deciso di togliere dalle feste nazionali quella data, ma ricordo invece quando e perché fu deciso di rendere festività obbligatoria il dogma dell’immacolata concezione. Festa laica e nazionale abrogata, celebrazione di un dogma curiosamente misterioso ed improbabile, valevole solo per i distratti dalla ragione, il secondo. Tutti e due gli avvenimenti hanno comunque a che fare con la stessa epoca e con gli stessi personaggi.

Il 20 settembre 1870, recitano i documenti, le truppe del Regno d’Italia abbatterono la cinta muraria del Vaticano e si infilarono attraverso la breccia aperta in prossimità di Porta Pia. In quel momento si celebrava materialmente il compimento di un lungo percorso di costruzione dell’identità politica d’Italia in gran parte unificata e si dava un segnale forte di laicizzazione della politica. L’ultimo stato teocratico d’Europa soccombeva sotto la spinta militare del giovane stato laico d’Italia. Il 20 settembre rappresenta questi due momenti fra loro connessi e non può essere ricordato il valore unificante senza richiamare il senso laico dell’operazione e delle sue conseguenze.

Lo Stato scomunicato affermava il diritto di conquistare un pezzo di territorio che simbolicamente rappresentava il caposaldo clericale ed antinazionale sopravvissuto alla rapina fatta in nome del falso atto di donazione degli ultimi imperatori romani. Con la breccia di porta Pia, infatti, la donazione di Costantino, ormai platonicamente riconosciuta come falsa, veniva messa definitivamente in archivio e la nazione italiana otteneva una capitale storicamente appartenente allo stato unitario.

Ma era lo stato laico che, contemporaneamente, si affermava. Nella Roma papalina, difesa dai mercenari svizzeri ed arroccata attorno al trono del pontefice massimo, non erano penetrati i germi del nuovo spirito che allignava ormai da più di un secolo in molta parte d’Europa. Nella Roma teocratica il liberalismo era bandito, scomunicato. Non c’era l’eguaglianza innanzi alla legge. I rapporti economici erano fondati sull’appartenenza alla storica nobiltà nera. La religione era unica e ben compenetrata con il regime politico. Ebrei e non credenti, o credenti in altre religioni, vivevano miseramente la loro esistenza sempre sottoposti alla verifica dei comportamenti da parte di una occhiuta e corrotta polizia ecclesiastica diretta e fedele perpetuatrice dei metodi e dei contenuti dell’Inquisizione. Il reato era la colpa, la giustizia era espiazione, la ragione era la fede.

Quindi il giovane stato unitario liberò Roma dalla cappa del governo più retrivo che l’Europa, anche all’epoca, conoscesse. Le plebi analfabete erano tanto segnate dallo stato di immiserimento, da consigliare lo stesso ambasciatore d’Austria, paese fedele alleato dello stato clericale, ad intervenire per scongiurare un intervento migliorativo senza il quale, appariva al diplomatico, il destino dello stato alleato sarebbe stato gravemente compromesso.

Si badi bene che alla situazione interna allo stato pontificio nessuno ha mai osato obiettare, ed anche i fedeli sostenitori della restaurazione anti liberale e papalina di norma preferiscono celebrare l’imponderabile ed indimostrato primato morale dell’istituzione ecclesiale piuttosto che discutere sui dati e sui fatti d’epoca. Così era quando irruppero le truppe italiane e la borghesia che, nel bene e nel male, era portatrice dei principali innovatori concetti della rivoluzione francese, si collocarono al governo oltre la linea del Tevere.

La stentata rivoluzione risorgimentale, senza la corale partecipazione di popolo auspicata dagli azionisti, sconfisse quindi quel lembo teocratico in nome della nazione unificata. Naufragò, infatti, la questione sociale, nonostante i generosi esempi di molti innovatori e depositari del pensiero mazziniano, e questo notoriamente segnò i destini del tracciato risorgimentale e favorì quella politica delle "cose reali" che ne mutilò il significato.

Na noi, in Trentino, la situazione fu diversa, anche se nel tempo non erano mancati numerosi e partecipati episodi nei quali pensiero ed azione si unirono per reclamare la realizzazione dei principi che ormai erano assodati in tutt’Italia. Lo Stato asburgico trovò nella fusione fra altare e crocifisso la ragione di sopravvivenza alla sovversione francese. Il bersagliere di Porta Pia, simbolo di modernità, dovette infatti arrestarsi per molti decenni innanzi al bersagliere tirolese, simbolo di fedeltà alla tradizione locale ed alla appartenenza etnica che si sublimava nella fedeltà al trono ed alla religione. La consolidata tradizione ha tutt’oggi un monumento e chi voglia prenderne visione dovrà spingersi fino ad Innsbruch e lì osservare il monumento al Tirolo: una figura bronzea, a fianco del fiume Inn, ove tre montanari ricurvi dominano dall’alto il valico attraverso il quale non passerà la sovversione liberale.

Porta Pia arriverà molto tardi nel Trentino, ci impiegherà 48 anni. Il novembre del 1918 a Trento entreranno le truppe dello Stato unitario, laico e scomunicato. Ci arriverà troppo tardi e con un patrimonio culturale ormai corrotto dal nazionalismo, offendendo le aspettative di quella parte minoritaria di borghesia e di popolo che nei decenni precedenti aveva dato del suo meglio per vedere assommare l’idea di appartenenza a quella di libertà. Pochissimi anni dopo, il regime fascista seppellirà la libertà e affermerà la truculenta farsa di un nazionalismo oppressore. I pochi dediti alla causa vennero reclutati, anche post mortem, dal nazionalismo e fra questi primeggia Cesare Battisti, cui fu dedicato il monumento funebre che domina la città. Rimossi tutti gli altri. Ai 21 martiri, ai liberi pensatori, ai legionari non spettò altra sorte che la dedica di qualche via ed una galleria.

L’idea laica e liberale in Trentino non ebbe nemmeno il tempo di affermarsi per quel tanto che consentisse di coltivarne la memoria. Questa parte di terra fu consegnata, appena possibile, all’etica delle "consolidate tradizioni", poste ufficialmente a fondamento della speciale autonomia locale.

Da Porta Pia, dal 20 settembre 1870, ai giorni nostri, in soli 130 anni l’Italia laica è stata consegnata alla politica ecclesiale. La Costituzione declama forti principi di eguaglianza e libertà, ma le regole non scritte hanno steso una trama di interessi materiali e di opportunismi tali da renderne impossibile l’applicazione. Anzi il furore clericale è tale che reclamare i valori costituzionali è opera definita con disprezzo laicista e colpevole. Paradossalmente in Trentino c’è una altra Costituzione che filtra dalle norme di attuazione dell’autonomia speciale in materia di istruzione. Da noi, infatti, le norme scritte e consegnate alla Costituzione non vengono nemmeno formalmente prese in considerazione ed allora il bilancio della Provincia finanzia le scuole confessionali e l’insegnamento della religione cattolica è definito curricolare. Insomma, la Costituzione è laica, ma il Trentino è consegnato alle "consolidate tradizioni".

Non è che i politici locali siano peggiori di quelli nazionali, naturalmente. Il fatto è che, per i noti motivi, da noi il potere si conquista e si conserva solo in questo modo. D’altra parte l’opposizione politica ha dato il suo contributo mettendosi a disposizione per i più smaccati patti consociativi. Spiegando al popolo elettore che la libertà era un fatto borghese, un vizio delle classi dominanti, estraneo agli interessi delle masse e che la laicità delle istituzioni era poco meno che una convenzione formale, sostanzialmente priva di conseguenze e offensiva del diffuso senso religioso delle nostre genti. Più o meno come sostenne Togliatti, che riuscì ad inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione.

Porta Pia è stata richiusa, fisicamente è persino difficile rintracciarla fra il traffico di Roma; il monumento al bersagliere ha una collocazione ben minore rispetto a quella riservata ai suoi colleghi delle montagne tirolesi. Il calendario cattolico si è arricchito di un nuovo beato, Pio IX, mentre il calendario dello Stato non ospita più la festività del 20 settembre e si è dovuto attendere l’elezione di Ciampi per avere la possibilità di ricordare che esiste persino il 2 giugno. Ma senza celebrazioni, per carità.

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