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QT n. 19, 28 ottobre 2000 Monitor

Un discutibile “Trovatore”

Casagrande Luca

Il trovatore di Verdi è approdato all’Auditorium del Centro S. Chiara di Trento. Riassumere in poche righe i temi di un melodramma è sempre difficile, de “Il trovatore” in particolare, anche perché i fatti, in realtà, sono per la maggior parte antefatti narrati dai protagonisti. Tutto si svolge tra Biscaglia e Aragona, nel 1409: la zingara Azucena vede la madre avviarsi al rogo, condannata per stregoneria dal vecchio conte di Luna, del quale per vendetta rapisce il figlio, tentando di arderlo vivo, ma in realtà brucia il proprio figlio. Intanto Leonora, dama della regina, s’innamora di un misterioso cavaliere, che aveva cantato sotto le sue finestre nei panni di trovatore: questi è Manrico, “figlio” di Azucena (in realtà figlio del vecchio conte), ribelle al trono d’Aragona e doppiamente rivale del giovane conte di Luna, suo ignaro fratello. Leonora, infatti, è amata - invano - anche da quest’ultimo. La conclusione è un’ ecatombe: muore Manrico, nel tentativo di liberare dalla prigionia la zingara che gli ha fatto da madre, a sua volta condannata a perire; e muore, suicida, Leonora, per non dover cedere alle brame di un uomo che non ama. Il giovane conte resta in vita, ma con la consapevolezza di aver condannato a morte il fratello e aver perso per sempre la donna amata. Col che, la vendetta di Azucena è compiuta.

Non a caso Verdi, in un primo tempo, avrebbe voluto intitolare l’opera “Azucena” o “La gi- tana”. E Azucena, al S. Chiara, era Susanna Anselmi, autentica, convincente protagonista di un allestimento peraltro di pura routine. Il mezzosoprano, di voce non bellissima, ma quasi sempre molto ben controllata, è una cantante e un’attrice di notevole intelligenza, dunque di forte fascino, e una volta tanto si è verificato il caso che la migliore sia stata anche la più applaudita da un pubblico partecipe, anche se non numeroso.

Simona Baldolini avrebbe anche discreti mezzi, ma ha forzato in continuazione, disegnando una Leonora ciabattona, sguaiata e volgare, riuscendo a riscattarsi solo alla fine dell’opera: solo dopo aver ingoiato il veleno, Baldolini ha deciso di cantare con la “sua” voce ed è riuscita a dipingere una credibile scena di morte.

Antonio Salvadori è un baritono di impianto solido, fin troppo per un personaggio sì protervo, ma anche capace d’amore e di momenti di autentica tenerezza, di sentimenti insomma, come il Conte di Luna. La voce è ancora buona nei centri e in basso, ma gli acuti sono francamente brutti: e la parte del Conte è acuta.

De Gobbi è stato un mediocre Ferrando, con la voce quasi tutta fuori controllo, Zanetti, Maiello e Nardo comprimari come tanti, ottimo il Ruiz di Gregnanin.

E veniamo a Martinucci. Che dire? Che è stato un tenore capace di momenti di grandezza, nel corso della sua lunga carriera (lo rammentiamo, nel 1988, come splendido Calaf in una “Turandot” all’Arena di Verona, ad esempio), ma che oggi gli rimane ben poco della passata “grandezza”: qualche buon acuto (con il sospetto che “Di quella pira” non fosse in tono…), la “zampata del leone” ogni tanto. Per tutto il resto, purtroppo, il tenore è l’ombra di se stesso.

Stefanutti è un regista dozzinale, dato per scontato che all’Auditorium è impossibile mettere in scena degnamente un’opera lirica impegnativa come “Il trovatore”: brutte le sue scene, banali i costumi, evidentemente incapace di far recitare i cantanti a dovere (ad esclusione di Anselmi), di far muovere il coro, nei momenti “clou” del dramma ha introdotto l’apparizione di una “presenza inquietante”, una donna abbigliata come una figura dei tarocchi, a metà tra la Papessa e il Diavolo, attorniata da quattro figure maschili in giubba rossa quattrocentesca e boccoloni neri, in stile “Regina Margot”! Un velo pietoso, poi, sull’esibizione del Coro del Teatro Sociale di Rovigo.

Molto interessante e precisa, invece, la direzione dell’orchestra “Malipiero” da parte del maestro Morandi, che ha adottato tempi “umani”, rispettato fino in fondo le indicazioni dinamiche di Verdi, e non si è mai fatto prendere la mano dalla fretta, come succede spesso in quest’opera.

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