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QT n. 2, 27 gennaio 2001 Cover story

La tregua è un successo solo se porta alla pace

L’attuale sistema ha un grande merito storico. Ma in questi decenni troppe cose sono cambiate.

Miguel Martina

Più che una polemica, quella innescata dalla lucida, attenta, pragmatica analisi del prof. Fabbrini sul sistema Sud Tirolo ha creato riflessioni molteplici, contraddistinte da tre differenti tipi di atteggiamenti:

Il prof. Sergio Fabbrini, politologo, docente all'Università di Trento.

1. quello di chi (Bolognini, Berloffa, Brugger) non capisce, ossia non riesce proprio a capacitarsi del fatto che possano esistere delle persone che chiedono, addirittura, il rispetto dei loro diritti di cittadinanza, sfidando un sistema chiuso e soffocante; non capiscono, non riescono a capire, perché per loro questo è il migliore dei mondi possibili e, pertanto, guai a toccarlo;

2. quello di chi (Durnwalder) si è reso conto da tempo che la baracca non sta più in piedi e che quindi, senza nulla togliere ai meriti che essa ha avuto in passato, ha compreso che oggi o si ha il coraggio di ristrutturarla, o altrimenti ci crolla addosso; siccome però è consapevole anche del fatto che la ristrutturazione della baracca comporterà pure il rinnovo degli amministratori del condominio, si arrabatta a cercare di tenerla in piedi così com’è, con qualche puntello, dilazionando il più possibile l’inizio dei lavori;

3. quello, infine, di chi (Steurer, Delle Donne, Gouthier e molti altri, tutti non certo accusabili di essere fascisti o contro l’autonomia) concorda con la coraggiosa analisi di Fabbrini e pare abbia scelto di rompere gli indugi e schierarsi dalla parte di chi vuole dare finalmente avvio al rinnovamento di questa provincia.

A mio parere, il principale merito del prof. Fabbrini è stato quello di avere lanciato l’idea che quello attuale non è un sistema al quale siamo stati chiamati con un atto di fede. Insomma, finalmente si può discutere senza tabù sui pregi e sui difetti di questo sistema, senza escludere a priori che esso possa essere migliorato.

Merito ancor più grande di Fabbrini è stato quello di aver lanciato un appello a tutte le forze politiche, senza distinzione tra centrodestra e centrosinistra, né tra partiti italiani e partiti tedeschi, facendo così comprendere che temi di questa importanza non possono essere in alcun modo un’esclusiva di questa o quella parte politica e che pertanto tutti sono chiamati ad assumersi delle responsabilità in merito.

Noi del MOET, che molto più modestamente abbiamo soltanto contribuito a ravvivare il dibattito su quest’autonomia col "fiato corto", lanciando qualche sasso nello stagno, non possiamo che compiacerci del fatto di vederci riconoscere che le nostre analisi, fino a poco fa considerate "eversive", erano invece corrette, tanto che oggi sono confortate da persone di riconosciuto prestigio, di diversi schieramenti politici ed anche di diversa estrazione linguistica (per quanto ci dia fastidio classificare le persone per la loro appartenenza linguistica).

Qualcuno si chiede se la società sudtirolese sia pronta ad affrontare il cambiamento o, peggio ancora, se lo voglia. La questione non può essere posta così: è ovvio che chi gode non recede, ovvero che chi ha vantaggi innegabili non vi rinuncia volentieri. Il problema vero è che l’Europa, nei prossimi (pochi) anni, costringerà in ogni caso questo sistema a cambiare, sia dal punto di vista del rispetto dei diritti di cittadinanza (imponendo i diritti liberali), sia dal punto di vista economico (spazzando via l’assistenzialismo dell’aiuto pubblico alle imprese). E le due cose, come ha correttamente sottolineato il prof. Fabbrini, sono strettamente legate tra loro: l’apartheid è, al di là di tutto, quantomeno un sistema economicamente poco… competitivo. Ben presto la domanda alla quale saremo costretti a rispondere sarà quindi: preferiamo mantenerci l’apartheid e diventare poveri, oppure superarlo continuando a rimanere ricchi?

Di sicuro non può essere pensabile che l’Europa sorvoli, ossia che consenta all’Alto Adige di continuare a non rispettare i diritti di cittadinanza ed a violare le regole sulla concorrenza: a quale scopo? Ciò è stato possibile (e sacrosanto) in Italia, poiché si doveva garantire la pace tra la maggioranza italiana e la minoranza tedesca. Ma in Europa? In Europa il gruppo linguistico tedesco non è certo una minoranza e tanto meno è una minoranza bistrattata. Tutt’altro.

Con la caduta dei confini, tutto è cambiato. Certo, l’omologazione è un male che va in ogni modo evitato, poiché produce gli effetti contrari, ossia le reazioni xenofobe. Le differenze andranno quindi valorizzate, ma ciò dovrà avvenire nel rispetto dei diritti individuali di cittadinanza e, soprattutto, dovrà avvenire per tutti. Dentro l’Europa saremo tutti delle minoranze: italiani, tedeschi, francesi, spagnoli. Piuttosto, più minoranze delle minoranze, e pertanto bisognose di particolari attenzioni, saranno gli sloveni, i ladini, i baschi, i catalani, i sardi. Ma un conto è evitare la guerra civile, un altro è valorizzare le identità culturali. Traducendo: un conto è l’apartheid e l’assistenzialismo economico, un altro è tenere vive le lingue e le tradizioni. Con l’Europa, anche qui in Alto Adige dovremo passare dal primo al secondo strumento.

La sfida che noi del MOET abbiamo lanciato, la sfida che hanno lanciato gli studenti italiani, tedeschi e ladini (scuola plurilingue e fine della ghettizzazione culturale, per chi facesse finta di non ricordarsene), la sfida che hanno lanciato tutti coloro che hanno avuto il coraggio di esporsi (a cominciare da Fabbrini, ma anche Steurer, Delle Donne, Margheri, Frattini), è quella - colossale e appassionante - di portare a pieno titolo l’Alto Adige in Europa, archiviando l’apartheid e rendendo economicamente competitiva questa provincia (e magari questa logora regione).

Non piccoli aggiustamenti, ma un cambiamento di sistema, un cambiamento necessario proprio per continuare a garantire il nostro benessere e la nostra convivenza guardata con ammirazione in tutto il mondo. L’alternativa non sarebbe quella di continuare come ora, bensì quella di andare incontro ad un crollo traumatico, con tutte le immaginabili drammatiche conseguenze sul piano economico e sociale, ove a rimetterci sarebbero anzitutto i più deboli. Chi si oppone al cambiamento, per miopia o per convenienza, potrebbe insomma ritrovarsi ad avere la responsabilità di aver riacceso le tensioni tra i gruppi etnici.

Voler cambiare l’attuale sistema non significa affatto criminalizzarlo o abiurarlo. Anzi. Significa invece attribuirgli il merito storico di aver funzionato così bene da non rendersi più necessario. Per usare una metafora: la tregua è un successo se porta alla pace, ma se rimane solo tregua è un fallimento. Cosicché, chi oggi ritiene che sia ancora necessario mantenere gli italiani, i tedeschi e i ladini rigidamente divisi in compartimenti stagni (in lager culturali, per usare il termine di Fabbrini), poiché altrimenti si scontrerebbero violentemente, è come se dicesse che questo sistema non ha funzionato. Se così anche fosse, dovremmo dunque cambiarlo ugualmente.

Noi siamo convinti che mezzo secolo (o almeno gli ultimi trent’anni) di pacifica convivenza abbiano smorzato gli odi etnici. Gran parte dei cittadini dell’Alto Adige sono nati dopo il fascismo, molti erano bambini ai tempi del Los von Trient e gli studenti di oggi sono nati dopo il secondo Statuto e trascorrono il loro tempo libero chattando, dalla Val Pusteria, coi loro coetanei di Catania o di Parigi.

Che futuro vogliamo dare a questi nostri figli? Quale sistema vogliamo costruire per loro? Può essere pensabile che accettino di vivere in un luogo nel quale chi esprime liberamente le proprie idee è guardato con sospetto ed emarginato, se non magari colpito sul piano personale, con atteggiamenti non dissimili da quelli mafiosi?

Chi si oppone al cambiamento si giustifica sostenendo che in realtà l’odio etnico è ancora presente ed anzi ben radicato. E, giusto per suffragare la propria tesi, ci mette del suo per fomentarlo. Questi pericolosi personaggi, che purtroppo hanno in gran parte trovato riparo sotto il tetto della politica, in realtà non stanno facendo altro che difendere se stessi. Avendo costruito la propria carriera sugli odi etnici, si trovano spiazzati di fronte ad una società che di odi non vuole più saperne. Per rimanere in sella, hanno bisogno di riattizzare quotidianamente il sospetto tra italiani e tedeschi. Sono, in pratica, i Milosevic de’ noantri.

Se la riforma dell’Alto Adige e l’archiviazione dell’apartheid comporterà la scomparsa dalla scena politica di queste persone … beh, poco male, non ne sentiremo la mancanza. Le nuove generazioni, ossia la nostra futura classe dirigente, stanno già bussando con forza alle porte delle nostre coscienze, chiedendo la fine degli steccati. Sta a noi dare loro ascolto, assumendoci la responsabilità di transitare questa provincia in Europa, laddove la presenza di tante razze e di tante lingue diverse è considerata una ricchezza e non già una zavorra.

Miguel Martina, portavoce del MOET (Movimento Obiettori Etnici), in questa sede interviene a titolo personale.