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Genova, i protagonisti

Il problema non è capire cosa è successo a Genova intorno al 20 luglio, ma piuttosto capire perché è successo.

La coscienza della dimensione globale delle ingiustizie.

La novità non è l’estensione su tutto il pianeta delle ingiustizie che affliggono il genere umano. E’ sempre avvenuto che i più ricchi, avidi ed intraprendenti abbiano sottomesso e sfruttato i più poveri, miti e disagiati, non solo nei villaggi ma nell’intero mondo. Fin dal tempo dell’impero romano, e forse prima ancora, il rapporto fra i popoli è sempre stato un rapporto di dominio dell’uno sull’altro, di sfruttamento dell’uno dell’altro. Il Medio Evo barbarico, le Crociate e le guerre di religione, la scoperta delle Americhe e lo sterminio delle popolazioni indigene, lo schiavismo remoto e recente, i secoli del colonialismo, sono stati tutti fenomeni che oggi chiameremmo di globalizzazione, perché investivano l’insieme delle popolazioni esistenti sulle parti conosciute del pianeta e avevano in sé tutto il bene possibile in termini di evoluzione tecnologica ed economica e tutto il male possibile per ciò che riguarda l’eguaglianza e la libertà delle persone. La globalizzazione dei nostri giorni non è affatto diversa da quella di sempre se consideriamo l’estensione dei suoi effetti e la implicita contraddittorietà dei suoi contenuti. Ciò che di radicalmente nuovo presenta l’esperienza che stiamo vivendo è la diretta conseguenza della rivoluzione tecnologica dei mezzi di informazione che si è avverata negli ultimi cinquant’anni. E’ questa rivoluzione che ha impresso alla globalizzazione di oggi un carattere che in precedenza era assente, e precisamente la conoscibilità universale ed in tempo reale di tutte le nefandezze che ogni giorno si verificano in tutti gli angoli della terra. Oggi la televisione ci racconta ora per ora l’odissea dei 438 profughi afgani imbarcati sul mercantile norvegese Tampa che il governo dell’opulento e disabitato continente australiano rifiuta di accogliere. La percezione simultanea di questa, e delle innumerevoli altre ingiustizie che ogni giorno si consumano nel villaggio globale, suscita nelle coscienze più attente e sensibili un istintivo moto di reazione.

Nasce così il popolo di Seattle, espressione di una ribellione morale prima ancora che politica, che scaturisce dalla profonda natura umana e dalle culture in essa sedimentate che via via hanno segnato le tappe della civiltà. Era inevitabile che il popolo di Seattle convenisse anche a Genova per manifestare la sua protesta contro gli otto capi di Stato che rappresentano, non soltanto simbolicamente, il "sistema" economico, politico e culturale che domina il mondo e che genera prosperità e diritti per la minoranza, ma anche fame, malattie e morte per la maggioranza degli abitanti del globo.

I superintelligenti.

Poniamoci ora per un momento nei panni di un manager. Non di un manager qualsiasi, ma di un massimo dirigente di una delle gigantesche imprese multinazionali. Una di quelle di cui conosciamo i prodotti e le marche, che vediamo esposti nei grandi magazzini o scritte sulle insegne: la Esso o la Standard Oil, la Nestlè o la Nike, la McDonald o la Coca Cola, Microsoft o Motorola, IBM o General Motor, o una delle grandi società farmaceutiche. Oppure una di quelle imprese quasi clandestine per il grande pubblico perché producono e commerciano armi e premono perché Bush realizzi lo scudo stellare, oppure perché non producono nulla e si limitano, con semplici impulsi digitali, a spostare masse enormi di denaro, determinando le oscillanti quotazioni dei titoli e delle valute nelle borse del mondo.

Ebbene, per il massimo dirigente di una di queste imprese questo mondo è il migliore dei mondi possibili. Se il prezzo del barile di petrolio tende a crescere, aumenta subito quello della benzina, quando il primo diminuisce il secondo cala con un certo ritardo: il tutto in assoluta libertà, secondo accordi di cartello. Se in uno Stato la mano d’opera costa troppo, ebbene si "delocalizza" lo stabilimento in uno Stato ove non vi sia un sindacato che dia forza contrattuale alle maestranze o dove si possa sfruttare impunemente i minori. Se un medicinale è utile soltanto alla salute di grandi masse di poveri non si produce perché non rende, e si orienta invece la ricerca scientifica verso medicinali meno necessari ma più adatti ad un mercato prospero. E’ questa la logica del profitto, o, se vogliamo, la cultura d’impresa, alla quale il grande manager ispira la sua condotta, perché tale è il dovere impostogli appunto dalla sua "professionalità". Se non lo facesse, tradirebbe l’etica del suo lavoro.

Cosa pensa il nostro manager quando viene a sapere del pullulare di questi moti di popolo che mettono in discussione i meccanismi perversi del suo libero mercato? Al loro primo apparire forse li ha trascurati, contando sulla spontanea complicità della politica istituzionale e dell’apparato dell’informazione, oltre che sulla naturale resistenza inerziale dell’impianto complessivo. Ma via via che il movimento contestatore andava allargandosi ed assumendo maggior visibilità, il nostro manager deve essersi posto il problema di come neutralizzarlo. Egli non è brutale, ha un’intelligenza raffinata. La repressione del movimento non è compito suo. Ciò che può fare è creare le condizioni per dare un’apparenza di legittimità alla repressione. Ma soprattutto per screditare il movimento inoculando quel tanto di violenza che basta per trasfigurarlo. La manovra è semplice. Basta infiltrare piccoli gruppi di violenti in mezzo alla massa di dimostranti. Per i bilanci dell’impresa (meglio: delle imprese) è solo un’inezia trovare tre o quattro miliardi da impiegare per selezionare, attrezzare, addestrare qualche centinaio di balordi e farli passare per "anarchici insurrezionali", ed ecco i Black Bloc.

Io naturalmente non ho le prove per dimostrare che il ruolo interpretato da questo manager immaginario sia stato vero. Certo è che la descrizione che ne ho fatto è assolutamente verosimile.

I superstupidi.

Il nostro manager sapeva di poter contare anche su degli involontari alleati. Sono una esigua minoranza del popolo di Seattle, ma purtroppo una minoranza che conta assai più di quanto dovrebbe in ragione del numero dei militanti che la formano. Sono i più combattivi ed organizzati. Sono quelli che vivono il sentimento di protesta che li anima come un sacro furore, e che concepiscono la contestazione di un mondo violento come violenta essa stessa. Ma tale sentimento offusca le loro menti. Non capiscono che i mezzi devono essere degni dei fini, per cui se si lotta per eliminare le grandi violenze che questo sistema infligge al mondo, non la si deve fare con mezzi anch’essi violenti. Non colgono l’enorme sproporzione che esiste fra le loro piccole violenze contro i simboli dell’opulenza e le grandi violenze che intendono denunciare. Talché la loro violenza non solo è totalmente inefficace ad abbattere la grande violenza del mondo ingiusto, ma addirittura si rovescia contro le loro stesse buone ragioni. Effetto questo ancor più evidente quando la violenza è addirittura solo nel linguaggio. Quando la passione ottenebra le menti non si vede una verità essenziale: la non violenza è una scelta di principio coerente con i fini del movimento, e nel contempo dà forza ed efficacia alle sue ragioni. Non intendere ciò significa per insipienza dare manforte al nostro manager. E ciò, prima che un delitto, è un errore. E’ sommamente stupido.

Le forze dell’ordine.

Le forze dell’ordine sono un corpo complesso. Si compongono di migliaia individui di estrazione e formazione la più varia. Ciò che però hanno in comune è la loro funzione, che è essenzialmente repressiva. Loro compito istituzionale è vigilare per prevenire, ma soprattutto per reprimere le illegalità che si verificano nella società. Il loro intervento può avvenire solo nel rispetto della legge, ma è finalizzato a far rispettare coattivamente la legge da parte dei cittadini. Esso si risolve sempre in sanzioni, pecuniarie o restrittive, che comunque limitano il patrimonio o la libertà dei cittadini. Non a caso sono forze armate. Sono lo strumento pluripersonale nel quale si condensa quello che Sigmund Freud ha definito "il monopolio della violenza", che anche in un ordinamento democratico spetta legittimamente allo Stato.

Fa dunque parte della loro natura istituzionale una congenita tendenza repressiva. Spetta all’organo politico controllare ed orientare correttamente tale naturale tendenza. E’ il governo che deve infondere nelle forze dell’ordine la consapevolezza che esse sono tenute a garantire ai manifestanti il diritto sancito dall’articolo 17 della Costituzione di riunirsi pacificamente anche in luogo pubblico. Se al contrario il governo instilla nei rami dell’apparato di comando una pregiudiziale ostilità verso il movimento, ciò esalta la generalizzata tendenza repressiva.

La quale, come è ovvio, si esprime più agevolmente verso le parti deboli dei cortei, appunto quelle pacifiche ed inermi, evitando le più agguerrite e pericolose, appunto i Black Bloc. La presenza nei comandi di Fini ed altri deputati di AN e il trattamento di riguardo riservato ai Black Bloc prima e durante i giorni di Genova autorizzano sospetti anche peggiori. Corroborati del resto da quanto accaduto dopo e che sta accadendo per svalutare le ragioni del movimento.

La sinistra istituzionale.

I partiti della sinistra sono in grave imbarazzo. Meno Bertinotti, che è saltato sulla diligenza del movimento, sperando di trarne profitto. Assai più i DS. I temi agitati dal popolo di Seattle fanno parte del loro patrimonio genetico, ma dopo aver governato uno Stato della metropoli del mondo secondo le logiche sue proprie, hanno perso il contatto con quei valori. Recuperarli e tradurli in azione politica, elaborare le soluzioni di così immensi problemi, raccogliere attorno ad esse il consenso necessario, trasformarli in operante azione di governo, questo dovrebbe essere l’oggetto di ricerca e dibattito del loro imminente congresso.

In grave ritardo sono anche i sindacati. Basti pensare che a fronte di un capitale che spazia liberamente nell’ampia dimensione del globo, i sindacati dei lavoratori non solo sono ristretti nell’angusto ambito dei vecchi Stati nazionali, ma in Italia addirittura sono ancora frammentati in centrali concorrenti e talvolta fra di loro ostili, nate nella preistoria sulla base di antiche ideologie che li tengono ancora prigionieri.