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La lezione di Genova/3

Luciano Baroni

Stanno già calando sul Paese gli spettri d’una restaurazione che ricorda anche troppo da vicino gli esordi d’un famigerato ventennio. Visto il trionfo della destra nelle elezioni del maggio scorso e considerate le stature dei suoi esponenti di governo, c’era da aspettarselo. Ma indignarsi, ora, non basta e non serve a nulla. E non basta nemmeno, per quanto sia larga e appassionata, la protesta del "popolo di Genova" che chiama alla disobbedienza civile. Non bastano più, anche se dovute, le interrogazioni e le denunce d’una opposizione spesso confusa e divisa, perché rimbalzano contro il muro della malafede e dell’ipocrisia elevate a stile di governo da una maggioranza fascistoide.

Ancora una volta, e potrebbe essere l’ultima, davanti a una formazione politica che nonostante il suo declino rappresenta comunque la parte più cospicua del fronte ulivista, si pone il dilemma d’una scelta strategica netta, conseguente alle ragioni e ai princìpi delle proprie origini.

O è capace di riattingere forza e autorevolezza da un movimento democratico che è vivo e diffuso, a dispetto della sua eterogeneità, come quello dei "Social Forum", sostenendone sino a farli propri l’entusiasmo e la voglia di cambiamento, o sarà condannata a perdere ulteriormente consensi e adesione. Non è, un problema di rinuncia a falsi ruoli di egemonia o di meschine preoccupazioni di favori alle ali d’una sinistra diversa: è che la strada del moderatismo (non già della moderazione che è cosa altra) e dell’appiattimento sulle posizioni degli avversari politici e sulla filosofia del mercato globale è ormai un vicolo cieco in cui rischiano di sparire anche le ultime velleità di riscatto.

I malumori e i rimproveri che agitano i dibattiti nelle feste dell’Unità a proposito delle prese di posizione di alcuni esponenti diessini nei confronti del Forum genovese sono il segnale d’un forte pericolo di distacco e di abbandono anche da parte della base più tradizionalista del partito. Non ci si meravigli poi se chi è lasciato solo e inascoltato nel mare composito delle associazioni "disobbedienti" trova altrove una guida politica più coerente con le proprie aspirazioni.

Ma ci si guardi soprattutto dal desiderio di veder disperdersi il frutto di questa disobbedienza civile nella speranza di giustificare col senno di poi le proprie cautele e il proprio disimpegno. "Noi l’avevamo detto" sarebbe in questo caso il commento più degno del vecchio antifascismo da farmacia.