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QT n. 17, 13 ottobre 2001 Servizi

Referendum: chi ha vinto?

Il referendum sul (falso?) federalismo. Al di là delle semplificazioni partigiane, il cammino non semplice verso un moderno Stato decentrato.

Sul maggioritario, l’anno scorso, il centro-destra aveva invitato gli elettori a “restare a casa per mandarli a casa” (il riferimento era al governo dell’Ulivo), e aveva bollato la consultazione come “referendum comunisti”. Ma a raccogliere le firme per quel referendum erano stati i militanti di Alleanza Nazionale, costretti da Gianfranco Fini ad annullare le vacanze per rimanere, sotto il sole d’agosto, a convincere gli italiani della bontà del maggioritario.

Questa volta, sul federalismo, è successa più o meno la stessa cosa.

La riforma della Costituzione confermata dagli italiani lo scorso 7 ottobre, col 64 per cento dei sì, non è il “falso federalismo delle sinistre”, bensì un testo la cui prima bozza fu presentata da un relatore del centro-destra in Commissione Bicamerale, incontrando gli elogi e il voto favorevole dello stesso Berlusconi, e che successivamente, durante il lungo iter parlamentare, ha trovato il pieno appoggio da parte della quasi totalità degli amministratori, tra i primi proprio quelli del centrodestra. Come non bastasse, è bene ricordare che a chiedere che si tenesse il referendum, sul quale Berlusconi ha fatto campagna per l’astensione, sono stati i parlamentari della Casa delle Libertà.

È difficile, quindi, sostenere che ad uscire vincitore dal referendum sia stato l’Ulivo. Di sicuro, però, si può dire chi ha perso. Ha perso chi ha posto i propri interessi di bottega davanti a quelli dell’Italia, in particolare dell’Italia del Nord, ove non a caso si è registrata la più alta affluenza alle urne. Ha quindi perso la Lega di Bossi, schierata per il No, ma hanno perso anche gli altri partiti del centro-destra che invitavano all’astensione.

Molti si chiedono cosa succederà ora. Ossia se il governo ostacolerà l’attuazione di questa riforma e se la maggioranza proseguirà nel dichiarato intento di stravolgerla.

Chi mastica un po’ la materia dorme sonni tranquilli. Perché questi sono, in gran parte, falsi problemi.

Durante la campagna referendaria, Bossi ha detto che avrebbe denunciato i giornalisti RAI che avessero parlato di “referendum sul federalismo”, poiché, secondo lui, questa riforma non ha nulla a che vedere col federalismo. Ma che significa federalismo? In America, i federalisti erano i centralisti, ossia quelli che si battevano per dare più poteri alla Federazione, cioè a Washington. E se le ire di Bossi nascono dal fatto che, secondo lui, alle Regioni bisognerebbe dare pieni poteri su certe materie sulle quali, invece, questa riforma prevede una gestione “concorrente” tra Stato e Regioni, ebbene è opportuno sapere che, nella federalista Germania, i Länder non hanno poteri esclusivi su un bel niente, poiché tutto è “concorrente” tra essi e il Bund (lo Stato).

Ragionare in bianco e nero è insomma fuorviante. È impossibile stabilire in maniera netta se un ordinamento è federale oppure no, a meno che non ci si accontenti delle etichette.

Con la devolution tanto cara a Bossi, Tony Blair ha “bonariamente concesso” alla Scozia di avere un proprio Consiglio regionale, poiché fino a tre anni fa non aveva neppure quello. Se a Westminster un deputato britannico proponesse di garantire alla Scozia i poteri che le Regioni italiane hanno da trent’anni, probabilmente sarebbe bollato come sovversivo e Sua Maestà non lo inviterebbe più alle cerimonie ufficiali.

Né il federalismo è una cosa che s’introduce con una semplice legge (fosse anche, appunto, una riforma della Costituzione), ossia una cosa che oggi non c’è e domani, con la bacchetta magica, sì.

L’attuale Statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige/Südtirol risale al 1972, ma se confrontassimo i poteri che il Trentino aveva trent’anni fa con quelli che ha oggi, noteremmo che, pur a Statuto invariato, la differenza è enorme. Era ieri quando Durnwalder e Andreotti venivano trattati come eversori dal Presidente Scalfaro per aver osato aprire un ufficio delle due Province a Bruxelles, cosa oggi considerata normalissima.

Tutto questo per dire che, per far pendere la bilancia del potere dal centro verso la periferia, non basta una legge o una Costituzione: serve forza di contrattazione, capacità amministrativa, consenso della popolazione e più in generale cultura dell’autogoverno, quella che a Bolzano è così ben radicata e che invece a Palermo, pur con uno Statuto più autonomista e più vecchio del nostro, non si è sviluppata per nulla.

Dobbiamo allora dedurne che questa riforma costituzionale non serve a niente? Tutt’altro: questa riforma ha offerto alle Regioni più potere per contrattare con lo Stato il livello della propria autonomia. Sta alle Regioni, ora, saper utilizzare questo potere, quello stesso che il Trentino-Alto Adige/Südtirol ha usato e la Sicilia no. La Camera delle Regioni, il principale tassello mancante di questa riforma, sarà importantissima per aumentare ulteriormente il potere di contrattazione della periferia, ma servirà a ben poco se – come fa il presidente del Veneto – i governanti regionali si schiereranno sempre, a priori, dalla parte dei leader nazionali del loro partito.

L’Italia è da oggi una Repubblica federale? Si può dire che oggi si sono gettate le basi perché lo diventi fra venti o trent’anni; a patto che si diffonda la cultura dell’autogoverno.