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QT n. 19, 10 novembre 2001 Servizi

Gli inutili proclami di Bin Laden

Come il mondo islamico è attraversato da discussioni e conflitti. A colloquio con il sociologo Adel Jabbar.

Conosciuto soprattutto come uno degli animatori della associazione interetnica Shangrillà, Adel Jabbar, di origine irakena, è un sociologo che si occupa principalmente di immigrazione e di relazioni interculturali. E’ docente presso il biennio specialistico in Diritti di cittadinanza e interculturalità dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, consulente dell’Istituto Pedagogico della Provincia di Bolzano e dell’Iprase di Trento e collabora con la cattedra di sociologia delle relazioni etniche dell’Università di Trento e con diverse riviste. Una dei suoi ultimi lavori è dedicato a "L’Islam oggi. Jihad, nonviolenza e modernità" (in: Claudio Tugnoli (a cura), Maestri e scolari di non violenza", Ed. Franco Angeli, Milano).

Che quella attualmente in corso sia una guerra di religione fra due fedi e due civiltà inconciliabili sembra che lo dicano solo Bin Laden e i suoi accoliti. Ma anche da noi, pur non arrivando a esplicitare questo pensiero, nei discorsi quotidiani come in certi mezzi di informazione si tende poi a raffigurare il mondo musulmano come un blocco compatto, confuso, misterioso e minaccioso. Che la situazione sia molto più complessa, fortunatamente lo dicono in molti, ma forse senza avere ben chiari i termini della questione.

Calligrafia araba: "nel nome di Dio clemente e misericordioso"

Insomma, com’era, almeno fino al fatidico 11 settembre, il dibattito interno al mondo musulmano?

"Cominciamo col dire - ci risponde Adel Jabbar - che i paesi che fanno parte della Lega degli Stati Musulmani sono 56; di questi, 22 fanno parte della Lega Araba e solo 6 si definiscono stati islamici: Arabia Saudita, Pakistan, Afghanistan, Mauritania, Iran, Sudan. E in ognuno di questi sei l’origine di questa identità islamica ha origini diverse. Nel caso del Pakistan, ad esempio, sorto nel 1947 dalla spaccatura dell’ex impero inglese in India, la religione islamica era l’elemento unificante per la costituzione del nuovo stato, un elemento capace di unire i diversi gruppi linguistici e culturali. Il caso iraniano, più recente, nasce con la sconfitta del tentativo democratico e secolarizzato del governo Mossadaq nel 1953, una sconfitta favorita dall’ostilità occidentale. Come reazione, si formarono una corrente islamista e una di sinistra che si strinsero in un’alleanza non dichiarata attorno alla figura di Khomeini; crebbe così un movimento popolare nonviolento, con milioni di persone che per mesi manifestarono la loro opposizione al regime, fino alla caduta dello Scià; dopo di che la componente religiosa ebbe la meglio. Completamente diverso il caso dell’Arabia Saudita, dove, negli anni attorno alla prima guerra mondiale, l’attuale dinastia assume l’islamismo spiritualista, tradizionale delle origini per differenziarsi e contrapporsi alla dinastia hascemita, quella attualmente al potere in Giordania, che allora venne sconfitta e respinta verso nord. In Afghanistan tutto nasce invece dalla resistenza popolare contro un’invasione straniera, quella russa, e come nel caso pakistano, l’aggregazione avviene attorno all’Islam, unico possibile momento unificante fra etnie diverse. Ancora diverso il caso del Sudan, dove un’alleanza fra un movimento politico e alcuni settori dell’esercito si richiama alla religione per ristabilire un’autorevolezza dello Stato indebolita da lotte intestine e spinte particolaristiche. Quanto alla Mauritania infine, qui il legame religioso è un dato connaturato, senza nessun intendimento ideologico.

Ecco, in questi paesi indubbiamente la pratica religiosa è molto diffusa; ma nel resto del mondo musulmano la situazione è diversa; e nei paesi più "secolarizzati" – soprattutto quelli che si affacciano al Mediterraneo - la religione è vissuta a volte addirittura meno che in Italia: vi è scarsa attenzione, ad esempio, all’insegnamento religioso nelle scuole, o è in vigore - in Egitto, Algeria, Libia, Tunisia, Marocco e Siria - la proibizione di fondare partiti che si definiscano musulmani, mentre ovunque in Europa esistono partiti, spesso al governo, che si richiamano al cristianesimo.

Con tali premesse, parlare genericamente di ‘stati musulmani’ non ha alcun senso".

Questa proibizione di fondare partiti religiosi non mi sembra però una garanzia democratica, quanto piuttosto il sintomo di una paura. Visti i non eccelsi risultati di molti governi post-coloniali e il loro carattere autoritario, non c’è il rischio che la sola alternativa venga vista dalle popolazioni in un ritorno alla tradizione religiosa con connotazioni violente? Anche perché questi governi spesso si presentano come paladini della modernità…

"In Europa, quando si parla di modernità, di democrazia, di laicità, si intende una maggior partecipazione di tutti alla cosa pubblica, una capacità e possibilità delle fasce deboli della popolazione di rivendicare dei diritti, il diritto di esprimersi ed organizzarsi, un maggior benessere. Ma in altri contesti, modernità e democrazia sono concetti utilizzati da un’élite ‘modernista’ ma autoritaria. Per andare indietro nel tempo, il massacro degli armeni perpetrato dai giovani ufficiali turchi potrebbe apparire il caso di una barbarie operata da musulmani intolleranti: e invece questo tragico episodio avviene proprio quando si afferma una nuova realtà statuale modernista, laica, il cui intento è quello di creare uno stato nazionale sul modello europeo. E tutto quanto contrastava questo progetto andava eliminato.

Gli esempi di questo genere potrebbero essere numerosi; il risultato è che in molti paesi musulmani la ‘modernità’ è stata vissuta in questi termini. Almeno fino agli anni ’70 il modello europeo ha avuto per questi popoli - e non solo per le élite - un forte potere di attrazione e un grande seguito: modernità significava essere come l’Europa in termini di sviluppo scientifico e di benessere. Ma l’interpretazione che a questi principi è stata data da molti governi ha cambiato la situazione…."

…tanto che oggi si rischia di buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca. Se democrazia e modernità hanno dato questi risultati, meglio tornare al passato - si tende a pensare. E’ così?

"Visti i risultati ottenuti, è inevitabile che si cerchino nuove strade".

Ma come si sta sviluppando questo dibattito interno al mondo musulmano?

"Esistono sostanzialmente tre filoni. Una corrente "modernista", quella che nei fatti fin qui ha vinto e governa la maggior parte dei paesi musulmani. Quella di cui abbiamo già parlato. Poi un filone riformista, che ricordando come la civiltà occidentale abbia molti suoi fondamenti nella civiltà del Medioevo islamico, vorrebbe rielaborare questa antica cultura aggiornandola alla situazione di oggi. E’ forse il tentativo più serio e originale, diffuso però soprattutto fra circoli di intellettuali piuttosto marginali. Infine il filone tradizionalista che originariamente puntava solo al recupero del passato religioso, di forme di devozione popolare, rimanendo estraneo alla politica. Solo negli anni ’70, in coincidenza con l’evidente fallimento dei regimi post-coloniali, si avvia una politicizzazione, un avvicinamento a posizioni militariste, violente; e nel corso di questa trasformazione l’integralismo - chiamiamolo così - subisce l’influenza operativa e linguistica del movimento anti-colonialista e marxista, perdendo i suoi caratteri puramente religiosi. Nelle dichiarazioni di Bin Laden, ritroviamo non a caso tutta una serie di concetti ed espressioni tipiche dei proclami dei movimenti di liberazione degli anni ’50: riscatto del popolo, recupero della dignità, no agli eserciti stranieri, gestione autonoma delle risorse… Questo è un linguaggio recente, non certo di tradizione islamica. Dunque, si tratta di movimenti a loro modo moderni che si contrappone a regimi altrettanto - ma diversamente - moderni.

Vorrei concludere questo discorso con quanto scritto in un suo libro dall’attuale presidente iraniano Khatami: noi per Occidente - dice in sostanza - intendiamo il mondo intero: l’Occidente oggi è un modello universale dal quale non si può prescindere, in cui siamo tutti inglobati, solo che qualcuno vi è inglobato in termini subalterni. Noi musulmani siamo tra questi, perché a questa civiltà non abbiamo dato un grande contributo, il che ci addolora. Che fare allora? La soluzione non può essere la violenza verbale, ideologica o militare: dobbiamo riuscire a instaurare una relazione dialettica con questo mondo che ci comprende.

Nel mondo musulmano non c’è una ostilità a priori rispetto all’Occidente, come modello culturale: anzi, spesso c’è una condivisione di questo modello, c’è attrazione, c’è ammirazione… almeno quando se ne vedono i frutti. Il mondo musulmano non fa riferimento a categorie di pensiero completamente diverse. Questa è un’idea molto diffusa, ma falsa: il mondo islamico è stato attraversato dal pensiero nazionalista e perfinoda quello marxista (diversi paesi musulmani hanno avuto governanti comunisti)… Non è un mondo lontano, a parte".

In questa situazione come intervengono gli attentati negli USA, l’alleanza anti-terroristica, le bombe in Afghanistan?

"I governi dei paesi musulmani hanno condannato l’attentato e si sono accodati all’alleanza, compresi i tre (Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi) che riconoscevano il governo di Kabul…".

Voglio dire: la situazione che si teme possa accadere in Pakistan, ossia una rivolta dei fondamentalisti contro il governo, è ipotizzabile anche altrove col protrarsi della guerra?

"Anche in occasione della guerra contro l’Irak qualcuno temeva chissà quali conseguenze interne in qualche paese arabo, poi non è successo niente (per la verità, non è successo neanche che Saddam fosse cacciato, o che i cittadini kuwaitiani godessero di più democrazia…).

I movimenti islamici radicali sono minoritari: un conto è il devozionismo, un’altra cosa è l’impegno militante e militare. Oggi la maggioranza del ceto medio e delle stesse classi popolari è poco sensibile a richiami di tipo religioso-ideologico; sono più interessati a rivendicazioni di maggior democrazia, a un minor livello di corruzione nella gestione dello Stato, a maggiori possibilità di lavoro. Il rischio è che per ottenere questi obiettivi si instaurino delle alleanze con forze che alla democrazia e alla libertà di espressione sono ben poco interessate.

Negli anni ’60 i "modernisti" che governavano, per legittimare il proprio potere ed ottenere l’appoggio dell’Occidente, reprimevano duramente l’opposizione comunista. Oggi, per le stesse ragioni, usano la medesima politica nei confronti dei fondamentalisti; ma il problema è che questi regimi che pure si definiscono democratici, non danno possibilità di espressione agli oppositori".

Insomma, il pericolo che la situazione degeneri proviene da queste condizioni, dalla mancanza di riforme democratiche: gli appelli di Bin Laden muovono ben poco...

"E’ così. E va ricordato anche che i movimenti islamici radicali si sono sviluppati al di là del proletariato, in settori della classe media, che avevano una sensibilità anticolonialista e sono rimasti delusi nella loro speranza che con l’indipendenza potessero accedere ad una promozione all’interno dell’assetto istituzionale. Secondo le stesse logiche che vediamo agire nelle società occidentali; anche in questo il mondo islamico non è poi così diverso.

Per capire questo mondo, come qualunque società, dobbiamo considerare i dati concreti. Prendiamo il caso dell’Afghanistan: da due mesi è quotidianamente presente sui giornali, ma mai che si legga una scheda che riporti i suoi indici di sviluppo economico, la percentuale di analfabeti, quante persone vivano in città e quante in campagna, quale sia il tasso di disoccupazione… E’ con questi indicatori che si capiscono le situazioni. Ma quando si parla di paesi musulmani, sembra non ci sia bisogno di dati socio-economici: si va sul simbolico, sull’ideologico, sulla suggestione; dando così ragione, paradossalmente, a quei musulmani che interpretano la realtà solo con strumenti ideologico-dottrinari".

Veniamo ai riflessi della situazione internazionale in Italia: come si pongono, in generale, i nostri immigrati di fronte a questa richiesta di schierarsi da una parte o dall’altra?

"Le organizzazioni dei musulmani in Italia hanno condannato senza esitazione gli atti terroristici. Questo nei documenti ufficiali. Poi ci sono stati alcuni personaggi che insistono sulla questione delle prove della colpevolezza di Bin Laden…"

Appunto: come l’imam di Porta Palazzo a Torino e il presidente del Centro Islamico di via Jenner a Milano, ripetutamente intervistati nel corso di dibattiti televisivi. Il punto è: quanto sono rappresentativi questi personaggi?

"La stragrande maggioranza dei musulmani in Italia (e sono 500.000 persone di diversa provenienza, più 70.000 italiani convertiti) vogliono soprattutto maggiore democrazia. Sono consapevoli che in Occidente hanno più libertà di espressione (perfino religiosa) che in patria. A queste persone dobbiamo chiedere di schierarsi dalla parte della democrazia e della tutela della dignità della persona: e a questo gli immigrati italiani si sono mostrati disponibilissimi.

Concludendo, voglio ripetere l’invito a distinguere, quando parliamo dell’Islam, fra religione, fondamentalismo devozionale (che non dà fastidio a nessuno) e radicalismo terrorista. E ribadisco che oggi non esiste un modello islamico: il solo modello è l’Islam medievale, che oggi evidentemente non esiste più".