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I terroristi: figli di un’integrazione fallita

Per battere il terrorismo, occidentali e musulmani devono rivedere la propria visione negativa dell’altro. A colloquio con l’islamologo Khaled Fouad Allam. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.

Achille Rossi

"Ogni qualvolta si verifica un attentato (e quello di settembre è davvero il più disastroso), si richiede sempre al mondo islamico di dimostrare la sua capacità di vivere in una società laica e secolarizzata. L’eversione terroristica tende a mettere in luce una differenza radicale fra popolazione islamica e resto del mondo".

Profugo afghano (foto Paolo Moiola).

Khaled Fouad Allam, studioso algerino docente di islamismo alle università di Trieste e di Urbino, che lavora da una quindicina d’anni sull’islam contemporaneo, ci aiuta a leggere il rapporto fra religione islamica e terrorismo. Allam non si dimostra troppo sorpreso di questa escalation del terrore: "Era nell’aria. Da circa vent’anni assistiamo a un crescendo di rivendicazioni di matrice politica nell’Islam contemporaneo: dalla rivoluzione iraniana, all’affare Rushdie, alla situazione algerina".

Cosa direbbe ad un’opinione pubblica che tende a qualificare l’Islam come religione del terrorismo e della violenza?

"Che nell’Islam di oggi non è la religione che definisce la politica, ma piuttosto la politica a definire la religione. Sarebbe per l’Occidente un errore imperdonabile rimanere intrappolato in un immaginario collettivo che accetta l’incompatibilità col mondo islamico, ritenendolo responsabile della spaccatura del Mediterraneo. Questa vecchia tesi di Henry Pirenne, sostenuta nel libro "Carlo Magno e Maometto", va abbandonata, perché oggi le cose sono completamente diverse".

Si spieghi meglio.

"Le società musulmane sono molto occidentalizzate e l’eversione islamica, in qualche modo, è fabbricata dallo stesso Occidente; non nel senso banale che l’Occidente ne sia direttamente responsabile, ma perché si tratta di ragazzi cresciuti, per motivi di studio o di emigrazione, nel mondo occidentale, che si trovano sradicati sia dalla loro cultura originaria che da quella che li ospita. Si sviluppa così una specie di metabolismo schizofrenico che fabbrica mostri. Ho ripetuto davanti a vari politici italiani che i terroristi spesso sono frutto di una cattiva integrazione. Il terrorismo islamico pesca fra questi perdenti dell’integrazione, ragazzi occidentalizzati che non si ritrovano più in nessuna delle due culture e che hanno perso il radicamento in uno Stato. Tant’è vero che il movimento si muove in uno spazio transnazionale e costituisce una ideologizzazione completamente patologica, da analizzare con gli stessi criteri con cui in Occidente si è riflettuto sui terroristi di Action Directe, sulla banda Baader-Meinhof o sulle Brigate Rosse. E’ un terrorismo molto diverso da quello palestinese degli anni 70".

Quello che più preoccupa Fouad Allam è l’incomprensione dell’Occidente per quello che sta fermentando all’interno delle società islamiche: "Il tipo di religiosità che si fa strada attraverso il processo di immigrazione è molto aperto alla secolarizzazione. Dalle nostre inchieste su campioni di musulmani emigrati nei vari paesi europei emerge un vissuto religioso che non corrisponde più né all’Islam delle origini né all’immaginario occidentale sull’Islam.

Per analizzare il divenire dell’Islam, quello dell’Occidente e il loro reciproco rapporto, bisogna avere strumenti concettuali in grado di decodificare una realtà in movimento. La trappola, invece, in cui cade prevalentemente la stampa italiana, è quella di regredire a un immaginario collettivo di tipo medioevale: ‘Mamma mia, tornano i saraceni!’. I saraceni non tornano più perché il mondo è cambiato".

Dunque, i movimenti terroristici non hanno una base popolare e non hanno niente a che fare con l’Islam?

"Assolutamente no. Si tratta di un’ideologia schizofrenica, sradicata sia da una realtà religiosa che da un’appartenenza nazionale. In effetti, Bin Laden non vive in Palestina".

Come si spiega allora l’insistenza dei terroristi sui riferimenti religiosi?

"Io spero che gli psichiatri comincino ad analizzare questi fenomeni, come avevano iniziato a fare gli egiziani dopo l’uccisione di Sadat nel 1981. Per parte mia, ritengo che questi giovani vivano una situazione di autentica schizofrenia e siano l’espressione della crisi di una parte della gioventù musulmana, che non si riconosce più in nessun sistema di valori, né occidentale né islamico tradizionale, e costruisce un mondo a modo suo, che è un mondo di terrore".

Si dice comunemente che nell’Islam non c’è netta distinzione fra religione e politica e dunque non esiste il concetto di laicità dello Stato. Come si articolano nelle società islamiche politica e religione?

"Questa è l’eterna domanda che ritorna sempre in ballo. Nella primitiva comunità, quella di Medina, l’intreccio tra politica e religione era molto stretto. Nel periodo successivo si è assistito, comunque, a una divisione di fatto del potere: il califfo rimaneva il depositario della rappresentanza sacrale, mentre i compiti di ordine amministrativo, politico e finanziario erano delegati ai segretari, i visir, oppure ai governatori locali, i sultani. Spesso le dinastie utilizzavano il riferimento religioso per rafforzare la loro autorità e renderla intoccabile. Tra la fine del 1200 e quella del 1700, quando anche all’interno dell’Islam si forma la nazione, c’è nel mondo musulmano un vuoto di produzione culturale e politica che viene colmato con il riferimento religioso. Si assiste ad un processo di ideologizzazione della tradizione, per legittimare qualcosa di estraneo alla configurazione politica dell’islam. Così l’Islam diventa religione di stato o religione del presidente della repubblica. In definitiva, nell’Islam contemporaneo, la religione non è soltanto un modo di strutturarsi delle comunità, ma un sistema di legittimazione giuridica e politica della nazione. Nei momenti di crisi, in cui la cultura islamica non produce più valori che fondino la convivenza nazionale, l’identità religiosa tenderà ad assumere un ruolo crescente. Questo, naturalmente, offrirà spazio ai movimenti fondamentalisti in tutto il mondo musulmano".

Se la sua analisi è fondata, l’avvenire del fondamentalismo è assicurato all’interno delle società islamiche...

"Non sono d’accordo: la violenza e il fondamentalismo che attraversano questa società da 25 anni hanno costretto il resto della popolazione musulmana a prendere posizione e a definire qual è lo spazio della religione nella città. Le donne che hanno manifestato contro il codice civile algerino, le centinaia di ragazzi, ragazze, scrittori sgozzati in Algeria dai terroristi, hanno provocato una reazione e una interrogazione sul rapporto fra islam e politica negli stessi paesi musulmani. Gli occidentali non si rendono ancora conto dell’importanza di questa breccia. Ecco perché considero pericoloso rimandare ai musulmani sempre la stessa immagine dell’intreccio fra religione e politica. Le cose stanno cambiando, anche se in maniera impalpabile e impercettibile, perché siamo di fronte a un processo di lungo periodo. Un fatto comunque è certo: l’Islam delle crociate è definitivamente morto".

Qualche tempo fa lei affermava che era proprio il mondo intellettuale di matrice scientifica a essere attratto dal terrorismo. Potrebbe spiegarcene la ragione?

"Le mie affermazioni non nascono solo da considerazioni teoriche, ma anche dall’analisi dei curricoli dei protagonisti dell’islam politico. Molti di questi ideologi hanno pensato che la differenza fra islam e Occidente fosse basata sulla produzione del sapere di tipo scientifico e tecnologico e che si dovesse colmare il divario su tale terreno. Ma c’è anche un motivo di natura mistico-teologica: per smarcarsi dal cosiddetto ‘degrado dell’Occidente’ hanno sempre criticato le scienze umane, che appaiono loro come una decomposizione dell’universo organico che rappresenta il divino. Le scienze sociali - storia, economia, psicanalisi, psichiatria - non permettono più un riferimento a un’unità intrinseca della verità, mentre la scienza è una e unica come la teologia islamica, che definisce il concetto di unicità divina. In altre parole, la verità scientifica viene vista come una conferma dell’esistenza di Dio, mentre ciò che appartiene alle scienze sociali è percepito come perdita di identità e di verità".

Come ha reagito il mondo arabo, nel suo complesso, agli attentati dell’11 settembre? Quali preoccupazioni ha espresso?

"Ho analizzato i quotidiani e mi sono accorto che per parlare di questa guerra non utilizzavano la parola jihad, come fa l’Occidente, ma harb, che ha una valenza soprattutto geopolitica. Il lessico è significativo perché esprime due modi diversi di leggere la realtà. Comunque gli arabi sono molto preoccupati, sia per il conflitto israelo-palestinese, che per la demonizzazione del mondo musulmano. I 20 milioni di musulmani immigrati in Europa potrebbero pagare un alto prezzo per questo rigurgito di islamofobia.

Bisogna spiegare all’opinione pubblica, che l’Islam è una cosa e l’islamismo, in quanto produzione ideologico-politica, un’altra. Questi fenomeni dell’Islam politico sono più o meno uguali a ciò che l’Occidente ha conosciuto intorno agli anni Settanta con i vari gruppi terroristici della sinistra. Tra l’altro ne riprendono le tematiche: l’antiamericanismo, l’anti-occidentalismo, l’anti-imperialismo, che poi vengono colorate con un linguaggio mistico-politico".

Quali reazioni potrebbe provocare nel mondo musulmano l’azione militare Usa per stroncare il terrorismo?

"Da quando è crollato l’impero ottomano il mondo islamico ha perduto la sua compattezza, non funziona più la umma, quindi le reazioni sarebbero differenziate. Il conflitto in Bosnia, dov’erano in gioco popolazioni musulmane, non ha provocato nei paesi islamici movimenti di piazza per rovesciare i governi, rei di non essere intervenuti. Comunque potrebbero crearsi situazioni di squilibrio, soprattutto in Pakistan, dove una eventuale guerra civile in un paese di 140 milioni di abitanti sarebbe un vero disastro. In Afghanistan, invece, penso che gli americani saranno accolti con favore dalla popolazione che si sentirà liberata dai taliban e dal loro totalitarismo".

Cosa si dovrebbe fare per evitare che i rapporti tra Occidente e Islam non sfocino in uno scontro di civiltà?

"Bisognerebbe rivedere dall’a alla zeta tutte le politiche euromediterranee, perché non si può rispondere ai problemi solo con la guerra. Ci servono politiche serie anche sul piano strutturale per mettere in relazione le due sponde del Mediterraneo.

Ancora mancano istanze internazionali in grado di gestire i rapporti fra mondo occidentale e mondo musulmano. Se è vero che l’Occidente deve cambiare il suo approccio, è innegabile che anche il mondo islamico debba cambiare e non aver paura di uscire dalla propria storia".

Quale immagine dell’occidente si è fatta il mondo musulmano?

"Un’immagine molto semplicistica, come di una civiltà esclusivamente materiale. Gli islamici si rendono poco conto dell’effettiva funzione della libertà e della democrazia.

Le società musulmane sono ancora a metà strada nel transito verso la democrazia; potranno compierlo solo attraverso un vero dialogo, che però non può realizzarsi se i due partner si fondano su un immaginario sostanzialmente negativo".