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QT n. 21, 8 dicembre 2001 Monitor

Dalla commedia al poliziesco

Fra i numerosi film in cartellone in questo perio do, in genere di medio livello, o basso, e inincisivi, il cui ricordo si spegne con il riaccendersi delle luci, c’è pur sempre qualche lavoro che si distingue.

E’ il caso del film "L’apparenza inganna" di François Veber, che a prima vista appare regista di piccole cose solo divertenti e tenute in superficie, ad una visione più attenta si rivela invece regista di spessore, celati i contenuti dall’involucro lieve, leggeri nell’apparenza e nello stile che richiama la leggiadria francese, pregnanti nella sostanza. Infatti ci parla dell’oggi, delle relazioni umane in un mondo dove ogni tabù è stato svelato, il politicamente corretto è regola, con tutte le ipocrisie, i cascami, i nuovi conformismi in cui si è ingessato, la difesa della diversità può divenire utile bandiera; ma lo fa con un tocco originale e da un punto di vista assai intelligente, mettendo in scena certi stereotipi post-moderni consapevolmente, al fine di mostrare i meccanismi con cui essi agiscono nel sociale e interagiscono nei rapporti interpersonali. Così il film, strutturato intorno alla creduta omosessualità del protagonista, la usa solo quale appiglio per narrarci come l’apparenza che inganna sia in fondo lo specchio della nostra società, e ingannevole sia piuttosto lo sguardo con cui gli altri ci guardano, e su cui, può essere un luogo comune, un pregiudizio o un anti-pregiudizio, un’idea comunque composta a priori, costruiscono una situazione, ma specie un personaggio. A prescindere dalla realtà, come capita al quieto, gentile e insignificante François Pignon, separato dalla moglie e dal figlio adolescnte che lo snobbano, ignorato, quando non deriso, da colleghi e capi, informato infine del suo imminente licenziamento, i suoi guai, che lo fanno soffrire fino a pensare al suicidio, passati tra l’indifferenza di tutti; finchè un anziano vicino di casa non escogita il modo per riscattarlo: fingersi gay, dopo l’invio alla ditta di suoi fotomontaggi compromettenti.

Tutto infatti cambierà: in primo, non sarà licenziato, perché l’azienda, produttrice di preservativi, non può sfidare la rivolta dei migliori clienti, i gay appunto; poi, agli occhi dell’entourage di lavoro e familiare diverrà in poco tempo, da invisibile e quasi reietto, una persona interessante, degna di tutta l’attenzione. La cosa più arguta è che François non è affatto cambiato nel comportamento, solo un po’ più sicuro, come prima è riservato, educato, mite, come sempre appartato e abitudinario, nulla c’è in lui che lo renda diverso. Solo i costumi sono cambiati ed evoluti, e capovolti gli estremi dei problemi, eguale è la sostanza di certo fariseismo; come dice il vicino, "vent’anni fa sono stato licenziato per la stessa ragione per cui tu adesso non lo sarai". L’omosessualità non è più fonte di emarginazione, al contrario diversità atta a creare un personaggio, importante e ricercato, come tempi e mode richiedono.

Il cast è straordinario (Daniel Auteuil, Gérard Depardieu, Jean Rochefort), lodevole la sceneggiatura, solida e sorridente la regia, qualità che regalano momenti di intelligente intrattenimento, così rari in un presente di abbondanza e pochezza.

Si passa dalla commedia al poliziesco con il film "Training Day" di Antoine Fuqua, che ci inoltra nel mondo criminale di East-Los Angeles, dove violenza e sopraffazione brutale sono la quotidianità, a cui anche i bambini si svezzano presto, in più qui estese e praticate nell’ambito della legge e della polizia.

Si tratta di un classico del genere, che ne rispetta i canoni senza riservare sorprese, e che trova la sua suspense in un abile montaggio, in un ritmo coinvolgente, che assorbono un certa ripetitività, nella bravura degli attori che incarnano in modo credibile le personalità antitetiche dei due protagonisti. Training Day è il giorno di ammaestramento del giovane poliziotto Jack (Ethan Hawke) nella sezione narcotici, sotto la tutela dell’incallito Alonzo (Denzel Washington), che ha il compito di "educarlo" al nuovo lavoro e metterlo a confronto con le difficoltà e brutture che comporta. Nel corso delle esperienze, che non risparmiano le violenze più crude, ma anche situazioni inverosimili, esagerate e costruite per colpire lo spettatore, si delineano i caratteri dei due poliziotti, emblematici di due contrapposte visioni etiche della professione e della vita: da una parte il bene e tutti i valori e principi di una legge democratica, dall’altra il male, il disprezzo di ogni norma che non sia l’abuso a proprio fine del potere esercitato, e la totale immoralità. Unico veicolo di scambio, la facciata di simpatia che sa emanare Alonzo. Il divario di fondo, nel corso delle operazioni, si va allargando: l’onesto Jack, all’inizio incerto ma affascinato dalla carismatica personalità del suo capo, prende atto ben presto che sotto abiti e distintivo di poliziotto agisce, decisa e proterva, la mente di un criminale, capace di tutto, che uccide con sadica ferocia, inganna, rapina, getta il suo stesso "discepolo" in un mare di guai, da cui solo il caso miracoloso lo può salvare. La crisi di coscienza di Jack si acuisce e quindi incrudisce, in battente crescendo, l’agire di Alonzo contro il "pivello", che si sente di non poter domare se non con i consueti metodi del delitto: tale confronto-scontro fra i due uomini e i loro mondi etici, pur con eccessi nella messa in scena, è la parte migliore del film, merito dei due attori nell’interpretare l’uno i dilemmi morali e la definizione della propria identità, l’altro la connivenza tra la sua bassezza morale e la immediatezza dell’approccio.

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