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QT n. 22, 22 dicembre 2001 Servizi

I kossovari di Predazzo

Immigrati senza casa: un problema delicato, e quindi rimosso. Ci si rimette tutti, perdendo in umanità.

C’è sempre timore nel portare sulla stampa le storie di immigrati, anche quando sono drammatiche, quando presentano casi che dovrebbero scuotere coscienze e specialmente l’immobilismo delle pubbliche amministrazioni. Timore di fare ulteriore danno a queste famiglie, di esporle ad altri ricatti, timori delle reazioni dell’opinione pubblica e non solo; anche il timore di sollevare invidie o perplessità all’interno della stessa comunità degli immigrati. Ma ci sono situazioni che non possono più venire taciute: una di queste riguarda il gruppo dei kossovari di Predazzo.

Si tratta di oltre cinquanta persone fuggite negli anni scorsi dalla guerra, dopo aver avuto le case distrutte, dopo aver subito minacce dirette a aver visto parenti venire uccisi, senza alcuna colpa.

La comunità si va allargando: il filo diretto fra queste persone e i parenti rimasti in una terra che ancora non è riuscita a ritrovare vie di pacificazione trasporta messaggi di speranza, di nuova vita, di serenità. Si dice: qui almeno si può lavorare, qui almeno non c’è paura. E dove non c’è paura si può riprendere il filo della speranza.

Così è accaduto che alcuni mesi fa è arrivata una nuova famiglia, padre, madre e quattro figli. Hanno il permesso di soggiorno in qualità di rifugiati politici, con riferimento alla convenzione di Dublino. Un permesso che va rinnovato di mese in mese in attesa dell’attestato che offra maggiori garanzie, un permesso che esplicitamente non ti permette di lavorare.

A questo dato già incomprensibile si aggiunge il fatto che la famiglia è ospitata in un paese turistico e, si sa (succede ad insegnanti, a medici), nelle nostre vallate nei periodi del turismo invernale ed estivo gli appartamenti vanno liberati per lasciare posto alle incredibili entrate imposte ai turisti, dai quattro ai sei milioni al mese.

Succede così anche alla nostra famiglia. Succede che amici che aiutano gli immigrati si portino in comune. Il comune di Predazzo dispone di appartamenti liberi, certo mai sistemati, in condizioni di inagibilità. Ma a Predazzo vi sono anche le case libere dell’ENEL, quella dismessa dall’ANAS.

Ma gli amministratori fanno capire che no, non possono muoversi su questo campo: se dessero la casa ad una famiglia di immigrati, correrebbero il rischio di non venire più rieletti.

Il servizio di assistenza del comprensorio fa il possibile per aiutare queste famiglie: offre l’assegno previsto, meno di un milione l’anno. Altro non può fare, perché la legge provinciale è rigida e limitativa, e perché quella nazionale, anche se targata centro-sinistra, costruisce vicoli ciechi, percorsi impossibili.

In Trentino poi i soldi vengono trattenuti per i servizi delle due città e nelle periferie non arrivano. In Provincia non sanno ancora che il problema si sta trasferendo nelle vallate, nei piccoli centri, o meglio, non vogliono saperlo. Succede così che i dipendenti del servizio assistenza vengono lasciati soli a gestire questi complessi temi e gli amministratori fuggono le loro responsabilità. Succede che su questi dipendenti poi ricadono tutte le accuse: vengono visti dagli immigrati come dei nemici, vengono definiti dagli amici degli immigrati "razzisti".

Succede che questi servizi non riescono a garantire una abitazione decente nemmeno ai residenti, perché i nostri comuni, quelli che vivono di turismo, cioè tutti, non aiutano l’ITEA, non reperiscono alloggi da ristrutturare. In queste valli la povertà non si deve vedere, va emarginata, non importa se sempre più persone stiano soffrendo, non sono queste le persone che costituiscono un elettorato stabile.

Dentro questo perverso cerchio, privo di vie d’uscita, succede che la nostra famiglia è costretta a percorrere giornalmente le strade dei paesi di Fiemme per chiedere l’elemosina. Qualcuno, specialmente chi conosce i drammatici contorni della vicenda, li accoglie e li sostiene. Altri nemmeno li lasciano spiegarsi nella lingua appena appresa e quindi stentata. Li cacciano, o per razzismo, o per paura: "Ma statevene a casa vostra" - si sentono ripetere, o quando va bene: "Andate a lavorare!"

Certo, nei nostri paesi si dice che queste persone, un po’ tutti gli immigrati, non abbiano voglia di lavorare. Si dice che appena ricevono il sussidio dell’ente pubblico le loro donne lo spendano per comprare creme anticellulite. (come si sa, queste creme non si possono spalmare su un panino), o coca cola e cioccolate. A loro non è concesso ovviamente.

Si dice che non si aiutano a vicenda: appena una famiglia ha due soldi, si compra l’auto, o tre cellulari. Questo si dice, specialmente quando non si conosce la realtà.

Non si sa che queste persone non possono tornare in Kossovo. Non solo perché la loro casa non esiste più o è stata occupata da altri. Ma perché non appartengono né all’etnia serba né a quella albanese: addirittura nemmeno ai rom. Sono "ashkalia", in pratica figli di nessuno. Una minoranza che è stata costretta dalla guerriglia, dai poteri istituzionali serbi e da quelli di etnia albanese, a fuggire in un campo profughi in Macedonia e lì a vivere senza diritti, privi di prospettive. Chi è rimasto in Kossovo deve guardarsi alle spalle ed in ogni direzione. Abita nelle vicinanze di Pristina? A Pristina non può entrarci: ha la pelle appena scura, verrebbe riconosciuto e non è detto riesca a ritornare poi a casa.

Tragedie nelle tragedie, vite vissute che non trovano speranze. In ogni storia di immigrati ci incontriamo in contraddizioni pesanti e non risulta semplice aiutare. Ci accorgiamo sempre di sbagliare, comunque. Non si trova alcun aiuto nelle istituzioni, né in quelle territoriali né nella questura. Il sindacato non può nemmeno aiutare chi sta lavorando in nero e vorrebbe essere regolarizzato, nemmeno chi viene licenziato e gettato fuori dal cantiere senza colpa alcuna con offese e calci, come avvenuto a Masi di Cavalese; succede che si deve accettare la precarietà assoluta, l’assenza di diritti minimi. Se questi venissero richiesti, come dovrebbe essere, si rischierebbe di costruire ulteriore danno attorno alle famiglie.

Questo accade nel 2001, nel nostro Trentino, nella nostra Italia, nel paese della civiltà superiore, come ci ricorda Berlusconi.

Lo sconforto ci accompagna ogni giorno mentre cerchiamo di risolvere almeno parzialmente le sofferenze di queste genti, che comunque vogliamo e cerchiamo con disperazione, perché costano poco, perché svolgono lavori che noi non vogliamo, perché accettano qualunque orario e qualunque carico di lavoro, perché rimangono invisibili. E speriamo rimangano sempre tali.

Questo ci dicono nei comuni, nei comprensori e dentro le sale delle nostre questure: cercate di non disturbare, non aiutateli a disturbare le nostre coscienze.