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QT n. 22, 22 dicembre 2001 Servizi

Disagio e giornali

A Trento, terzo incontro di “Redattore sociale”.

Con un seminario dal titolo "Scopri il disagio nascosto" si è tenuta domenica 9 dicembre a villa San Ignazio sulla collina di Trento la terza edizione trentina del "Redattore Sociale". Promotore il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) in collaborazione con l’Ordine Regionale di Giornalisti, l’Unione Sindacale Giornalisti Rai (UsigRai), la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI).

"Scopri il disagio nascosto" voleva essere un’esortazione rivolta a più soggetti: ai giornalisti perché prestino un’attenzione particolare alle forme di sofferenza nuove e più nascoste; all’operatore sociale perché intervenga tempestivamente contro le nuove forme di disagio giovanile; al cittadino perché si accorga del bisogno dell’altro, del parente, amico, vicino e dei meccanismi del mondo dell’informazione.

Il seminario era suddiviso in due parti, una incentrata sulle nuove emergenza sociali come anoressia e bulimia, droghe e violenze sui bambini, e l’altra su come i media fanno informazione su vicende che vedono coinvolte persone deboli e indifese quali minori, tossicodipendenti, immigrati, carcerati, prostitute.

Spesso i media traducono la realtà di un evento in immagini o scritti in cui raccontano persone e fatti con accenti a volte sensazionali, a volte crudi e perfino morbosi ed altre ancora permeate di pregiudizio richiamandosi, per sottrarsi al diritto alla riservatezza, a quello di cronaca. Quest’ultimo, come fatto riguardante l’intera collettività e non come fatto individuale, prevale certamente sul primo ma da parte del giornalista, di colui cioè che visivamente o verbalmente crea la notizia, sarebbe opportuno agire sempre cum grano salis, traducendo cioè un evento in una notizia completa ma senza discapito per la dignità della persona.

Ecco allora l’esigenza del redattore sociale poiché, se davvero la società ha bisogno di essere raccontata nelle sue dinamiche e nella sua complessità, il giornalista ha bisogno a sua volta di essere contaminato dal sociale fino ad assumerne aspettative e linguaggi.

Di questo e degli altri temi trattati parliamo con Fulvio Gadumi, ex presidente dell’Ordine dei giornalisti e giornalista dell’Ansa, che del convegno è stato presidente.

Come nasce questo convegno e cosa è il "Redattore sociale"?

"Redattore sociale" è un’agenzia giornalistica ideata dalla comunità di Capodarco (Ascoli Piceno) nel ’94, che ogni anno in collaborazione con le comunità di accoglienza e alcune organizzazioni giornalistiche, promuove un convegno nazionale attorno ad un tema diverso. Quello di quest’anno era: ‘Nebbia: che fine hanno fatto le notizie’. L’agenzia seleziona ogni giorno notizie su argomenti suddivisi in 11 macroaree e 73 aree e le mette in rete accompagnate da schede e statistiche, approfondimenti, profili di associazioni, link con siti del settore…

Tre anni fa l’iniziativa è stata portata in Trentino dalla sezione regionale del CNCA: la prima edizione fu ospitata a palazzo Geremia, la seconda a palazzo Trentini col titolo: ‘Profeti di paura’, ossia su come giornali e mass media creino allarme sociale ingigantendo ed enfatizzando fatti di cronaca nera, e la terza appunto a Villa San Ignazio. Lo scopo è quello di far incontrare operatori del sociale e giornalisti, di spingerli a confrontarsi su tematiche ogni anno diverse e superare diffidenze reciproche.

Dal convegno è emersa la proposta di un osservatorio sulla stampa locale: con quali finalità?

"L’osservatorio, composto da operatori del sociale e giornalisti, avrà il compito di mettere a punto un quadro sui modi in cui i media regionali trattano nelle loro cronache i soggetti deboli. Il lavoro viene portato avanti in collaborazione tra ordine dei giornalisti e CNCA mentre la facoltà di sociologia di Trento fornirà il supporto scientifico per questa rilevazione. Per intanto terrà d’occhio i quotidiani regionali, L’Adige, l’Alto Adige, il Dolomiten, il Mattino delle Alpi ed il Tageszeitung".

Una ricerca del’99 sulla stampa nazionale ha rilevato che lo spazio dedicato dai quotidiani a notizie sul disagio è minimo: tra 0,1 e 2,7% del totale…

"E’ così. Non c’è dubbio che le notizie di questo tipo vengono considerate da una certa fetta di opinione pubblica come notizie di scarso rilievo, inutili, sgradevoli se non fastidiose. Di conseguenza i giornali che ad essa si rivolgono si limitano a riportare i casi eclatanti e l’aspetto che fa rumore tralasciando quanto sta dietro. Ecco perché abbiamo scelto per questa edizione del "Redattore sociale" il tema ‘Scopri il disagio nascosto’.Scopri’ nel senso che dietro molti fatti di cronaca ci sono situazioni di disagio sconosciute ai più, che probabilmente ai lettori non interessa nemmeno conoscere e che il giornalista non si impegna ad approfondire in quanto le ritiene poco interessanti.

Sembra il famoso caso dell’Arturo e della presunta violenza subita...

"Mi ricordo bene di quella vicenda perché io e altri giornalisti ci trovammo d’accordo nel denunciare l’inammissibilità di quel modo di fare informazione: in quell’articolo c’erano tutte le caratteristiche sul come non si fa una notizia. Scrivemmo una lettera molto ferma al quotidiano AltoAdige ed il direttore di allora Franco de Battaglia ci rispose dandoci ragione e chiedendo scusa ai lettori".

Cosa dovrebbe fare in questi casi l’Ordine dei giornalisti?

"Dovrebbe valutare se sono state violate delle norme deontologiche e, in caso affermativo, prendere provvedimenti di gravità crescente, dall’avvertimento minimo per una violazione leggera o con attenuanti, alla censura, alla sospensione da uno o più mesi fino alla radiazione dall’albo".

Dietro l’urlare notizie c’è anche un problema di concorrenza tra giornali?

"Senza dubbio, la concorrenza è micidiale. Capita frequentemente che se un quotidiano fa un buco rispetto ad un altro, cioè non riporta la notizia di un fatto di cronaca data invece dall’altro, il giorno seguente tenta di recuperare lo smacco informativo fornendo qualche particolare in più di quanto l’altro non avesse pubblicato il giorno prima. Questo dovere dare qualcosa in più, spinge il giornalista più o meno intenzionalmente a rivelare circostanze che avrebbe dovuto tacere per motivi di deontologia professionale".

Come si deve comportare invece un redattore sociale?

"Approfondisce non tanto le dimensioni del singolo caso, quanto i problemi che stanno dietro in generale. Facciamo l’esempio: parlando di anoressia o bulimia, i media tendono a mettere sempre la solita foto o il filmato di modelle anoressiche, le presentano come ragazze disposte a tutto pur di imitare le top model, belle e magre, mentre in realtà sappiamo che dietro ci sono ben altri disag: dalle incertezze nel trovare una propria identità alla mancanza di autostima, da problemi familiari a tutta un’altra serie di difficoltà da non banalizzare in alcun modo. Prima di affrontare questi temi un giornalista dovrebbe confrontarsi con operatori sociali di settore e non a caso il direttore della testata ‘Redattore sociale’ ci ha invitati ad accompagnare i fatti di cronaca con schede ed informazioni supplementari per aiutare il lettore a contestualizzare il fatto. Certo non si può pretendere che ad ogni notizia di cronaca facciamo seguire il pistolotto perché l’informazione ha le sue regole, deve essere sintetica".

Si è parlato di formazione professionale del giornalista: non c’è il rischio che dall’Ordine si passi a una casta ancor più ristretta di formati in scuole magari a numero chiuso?

"No, perché nessuno andrebbe mai a farsi curare da un medico senza specializzazione né farebbe progettare la propria casa da uno privo di laurea o diploma specifico. Quindi, se in tutte le professioni c’è bisogno di una preparazione pertinente, non si vede perché quella del giornalista debba essere l’unica in cui uno sia costretto ad imparare a proprie spese sul campo. Sbagliando si impara, è vero, ma non è accettabile che diventi una prassi fare un sacco di errori prima di apprendere il mestiere, visto che questi errori si scaricano sulla qualità dell’informazione diretta ai cittadini. Quindi dobbiamo trovare una forma di accesso alla professione che parta da una base culturale specifica minima, cioè si cominci a fare il giornalista dopo aver imparato le leggi che regolano la professione e si sappia come va fatto il lavoro. Questa è una garanzia per i cittadini fruitori dell’informazione, prima ancora che per il giornalista".