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Vietnam gentile/2

Seconda puntata di un viaggio nel Vietnam: 25 anni dopo la fine di una guerra che segnò un’epoca.

Nella storia recente, Huè è ricordata come luogo dove avvennero gli scontri più cruenti dell’offensiva del Tet, scatenata dalle truppe vietnamite e vietcong nel gennaio 1968. 25 giorni di occupazione comunista in cui vennero trucidati migliaia di civili che avevano collaborato con gli americani, mentre i quartieri venivano rasi al suolo dalla controffensiva americana e la città riconquistata casa per casa con feroci battaglie (seppur girato negli studi di Londra, "Full Metal Jacket" di Kubrick è idealmente ambientato alla periferia della città, all’epoca della sua riconquista da parte dei marines Usa). Si calcola che durante l’offensiva del Tet a Huè persero la vita circa 10.000 persone: migliaia di vietcong, 400 soldati sudvietnamiti, 150 marines americani e una maggioranza di civili. Rispettando peraltro così le drammatiche proporzioni dei caduti in questa guerra.

Villaggio al confine con il Laos.

Tra il 1954 e il 1975 il fiume Ben Hai, che scorre dal confine con il Laos fino al mare della Cina, circa 60 km a nord di Huè, sul 17° parallelo, funse di fatto da confine tra Repubblica del Viet Nam (Viet Nam del Sud) e la Repubblica Democratica del Viet Nam (Viet Nam del nord). Questo territorio è stato teatro di battaglie tra le più sanguinose di tutto il conflitto.

Agenzie turistiche organizzano tour nella zona con partenza da Huè. Mini bus risalgono dalla costa la National Highway 9 e si inoltrano in un territorio che per molti anni costituì la poderosa linea difensiva americana "Mc Namara", dal nome dell’allora Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. Con Thien, Camp Carroll, Khe Sanh, Hamburger Hill, Quang Tri, Rockpile, sono i nomi di punti di avvistamento e vere e proprie basi di combattimento che il mondo imparò a conoscere attraverso il ripetersi dei bollettini di guerra e le corrispondenze giornalistiche.

Il territorio appare oggi come una serie di lande desolate, colline spoglie ed acrocori ricoperti di bassa vegetazione che della guerra non riportano apparentemente nessun segno. In realtà sotto il primo strato di terreno sono in agguato ancora quantità imprecisate di mine inesplose che continuano a mietere vittime: oltre 5.000 i morti per lo scoppio di ordigni trovati durante il recupero dei residuati.

Nel gennaio del 1968 i 6000 marines della base di Khe Sanh furono circondati ed attaccati dai nordvietnamiti. Gli americani risposero con settimane di devastanti bombardamenti sulle postazioni nemiche arroccate sulle colline che circondavano la base. I combattimenti cessarono il 7 aprile con la rottura dell’assedio e il ritiro dei vietnamiti. Quattro mesi dopo anche gli americani abbandonarono la base così alacremente difesa e che, in realtà, si trovava in una posizione strategicamente suicida. La battaglia era costata la vita a 10.000 vietnamiti e 500 marines americani.

Della base oggi non è rimasto praticamente niente. A ricordare questo luogo come teatro del più famoso assedio della guerra del Viet Nam solo una stele alla memoria dei caduti vietnamiti, una casupola-museo che raccoglie alcune foto sgranate ed armi arrugginite, ed alcuni ragazzi vietnamiti che cercano di vendere piastrine di riconoscimento dei soldati americani e bossoli ammaccati. Macabri souvenir per i quali hanno magari rischiato di saltare su qualche mina in agguato. Poco più in là una striscia di terra spoglia di vegetazione segna la pista di atterraggio degli aerei. Nel confronto con una foto regalata alla nostra guida da un veterano americano rivivono soldati in trincea che salutano mentre sullo sfondo un Hercules da trasporto rolla sulle piastre d’acciaio della pista.

L’atmosfera è irreale, nella piana soffia un vento carico di una tensione della memoria che suggerisce arbitrari simbolismi, come il rosso sangue della terra.

Proseguendo verso il confine con il Laos la Highway 9 attraversa villaggi di capanne di legno abitati dalle popolazioni delle montagne. Qui il tempo si è fermato in un’epoca lontana. Bambinetti semi nudi si affacciano dalle verande di abitazioni rialzate su precarie palafitte sostenute da contorti pali sottili. Le pareti di grezze tavole di legno delle abitazioni hanno irregolari buchi neri come porte e finestre. Donne trasportano a spalla carichi di legna raccolta nella boscaglia, che gli uomini tagliano con attrezzi arcaici. Nella terra polverosa scorrazzano galline, anitre, qualche maiale e una piccola orda di bambini stracciati e sporchi, che con un sorriso e qualche gesto chiedono il dono di una penna biro ai turisti che imbarazzati nascondono macchine fotografiche dal valore di un centinaio di confezioni di bic.

Su un semitornante che sale la montagna gli operai di un cantiere che sta ricostruendo un ponte sul fiume Ben Hai sono in pausa pranzo. Sull’altra riva la guida indica la strada che raggiunge il sentiero di Ho Chi Minh. Dell’arteria vitale che collegava i guerriglieri vietcong del sud con il Viet Nam del nord non è rimasto quasi più nulla. Quello che non sono riusciti a fare gli americani in dieci anni di bombardamenti l’ha fatto la foresta, richiudendosi su un intricato complesso di sentieri ormai inutilizzati.

Vinh Moc. Uscita dai tunnel sul Mar della Cina.

Riscendendo il fiume Ben Hai fino al mare, in territorio nord vietnamita si trovano i tunnel di Vinh Moc, costruiti dalla popolazione locale per salvarsi nella zona che i militari americani chiamavano "di fuoco a volontà". Tre chilometri di gallerie scavate a mano nel suolo argilloso in 18 mesi di lavoro dai 1.200 abitanti del villaggio. Bassi ed angusti cunicoli che mettono claustrofobia appena due metri dopo l’entrata, eppure per anni ci hanno vissuto famiglie intere in condizioni di semi-sepoltura. Il senso di soffocamento e l’umidità lasciano allibiti. Ma basta uno sguardo al terreno circostante, ancora tempestato di spaventosi crateri di bombe, per capire come il terrore possa aver portato dei miti pescatori a questo inumano adattamento.

Il problema della rete stradale vietnamita è la percorribilità rallentata dall’attraversamento dei centri abitati, dall’assedio delle case dei contadini che per non sottrarre terra alle coltivazioni si ammassano sulle carreggiate, dai carretti trainati dai bufali, dall’asfalto irregolare, dai mille lavori in corso. Anche qui il grande dinamismo della popolazione prende ritmi inevitabilmente più laschi. Cinquecento chilometri significano dalle12 alle 14 ore di autobus turistici, relativamente confortevoli. Con quelli "di linea" i collegamenti sono una questione di giorni su carrettone sgangherate, stipate di gente, generi alimentari, bagagli ed animali. Nel frattempo, da nord a sud, cambia il paesaggio: le geometrie delle pianure coltivate lasciano il posto al mare della Cina, alle lagune interne, alle saline, alle flottiglie dei pescatori, agli stagni coi fiori di loto, alle colline, ai filari degli alberi di caucciù, ai bananeti, ai villaggi di case di legno, ai contadini al lavoro, ai bambini che giocano a cavallo dei bufali.

Nha Trang ha la più bella spiaggia cittadina del Viet Nam. Il conseguente affollamento di turisti ha attirato una grande quantità di venditori ambulanti e mendicanti che chiedono l’elemosina. Sono tutti vittime della guerra. I primi, parenti di soldati dell’ARVN (l’esercito della Repubblica del Viet Nam del sud) messi al bando e costretti a lavori marginali come vendere sigarette agli angoli delle strade o fare massaggi ai turisti sulla spiaggia. I secondi sono in maggioranza mutilati: uomini di mezza età, ciechi, storpi privi di braccia o gambe, con il corpo devastato dalle granate.

Sulla spiaggia un tronco umano, completamente senza arti, si sposta a fatica torcendo il busto sulle natiche. Al collo ha un secchiello per le elemosine. Bocca e stomaco gli sono rimasti e in qualche maniera insistono a farlo vivere. Si avvicina a dei turisti americani che allungano qualche biglietto. Poi tutti i bagnanti della spiaggia tornano alle loro occupazioni, ma nessun sole illumina l’ombra della tragedia e dell’impotenza.

Il centrale Distretto 1 di Ho Chi Minh City si chiama Saigon. Ci si arriva dopo aver attraversato vasti quartieri periferici e zone industriali cariche di umidità e smog. Il traffico è un concentrato di tutto ciò che circola in Viet Nam; fortunatamente ci sono ancora poche macchine, altrimenti la città sarebbe un unico blocco stradale. Tutti suonano e si schivano percorrendo i vasti boulevard del centro dalla fisionomia così diversa da Hanoi. Più città, più capitale della colonia francese.

Saigon.

Ma non è solo questo a renderla così avulsa dal resto del paese. Qui si concentra la più alta produttività, commercializzazione, consumo e reddito del paese. Negozi stracarichi di prodotti elettronici di una liberalizzazione mercantile irrefrenabile affiancano i vecchi hotel Rex, Continental, Caravelle, Embassy lussuosamente ristrutturati. La torre della Citybank svetta dall’alto sullo sventramento di un quartiere centrale che tra poco lascerà il posto ad un enorme centro commerciale. La gente in moto veste all’occidentale e la ragazze sfoggiano jeans attillatissimi e sandali con zeppe. Se i taxi sono ancora in buona parte utilitarie Kia coreane, le poche auto private sono BMW e Mercedes. Sulla via Dong Khoi (ex rue Catinat), la strada più elegante della città, si aprono sofisticati negozi di souvenir, bar e ristoranti che riesumano gli antichi nomi francesi, come il Café Restaurant Brodard. Il turismo fai da te si è ritagliato uno spazio marginale di ristorantini, minihotel, agenzie viaggio e negozietti economici che ricorda molto la nota Khao Shan Road di Bangkok.

Di sera il locale più frequentato è l’"Apocalypse Now", dove di apocalittico ci sono solo dei lampioncini che colano vernice rossa e prezzi delle consumazioni pari al triplo di tutti gli altri posti. Sulle note di un dj che spara Doors, Rolling Stones e Creedence Clearwater Revival ("Run Through the Jungle"!), affascinanti vietnamite in abitini da sera con spacco giocano a biliardo e chiacchierano amabilmente con corpulenti giovanotti (e non) occidentali.

Un tour per la città non può evitare vari musei della guerra e la storica ambasciata americana, assediata da migliaia di vietnamiti durante l’avanzata dell’esercito del nord. Solo che ormai non c’è più. E’ stata abbattuta e per vederla bisogna comperare una copia della fotografia venduta da un’ambulante fuori dalle mura di cinta.

L’ex Palazzo Presidenziale, ora Sala della Riunificazione è visitabile, compresi i sotterranei bunker e l’elicottero sul tetto degli ex presidenti sud vietnamiti. Il Museo dei crimini di guerra (già Museo dei crimini di guerra americani) espone mezzi blindati americani, pezzi d’artiglieria, un elicottero Agusta Bell di quelli tante volte visti nei film sulla guerra del Viet Nam.

Nella sala che espone fotografie delle manifestazioni di sostegno al nord Viet Nam da parte dei giovani di tutto il mondo campeggia uno striscione con la scritta in italiano "Il Viet Nam è la nostra coscienza". E’ solo una sensazione, ma sembra uno slogan valido ancora per oggi. (2. fine)