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La città e i suoi muri

Il mito della sicurezza ad ogni costo sta trasformando case, quartieri e città in fortezze. Ma le barriere non fanno che alimentare i fantasmi della paura. Da “Narcomafie”, mensile del Gruppo Abele di Torino.

Bianca La Rocca

Mai come negli ultimi anni vivere in una grande metropoli è diventato, per molti, sinonimo di angoscia, paure, fobie e frustrazioni. Recenti indagini confermano una sorta di fuga, seppure non in termini apocalittici, dalle metropoli. I motivi sono i più svariati: stress, smog, mancanza di rapporti umani e spazi di socializzazione, paura della criminalità. Eppure, la metropoli continua, nell’immaginario collettivo, a identificarsi come luogo delle opportunità, del divertimento, della realizzazione delle proprie ambizioni.

Fra molti cittadini e la propria città si è già cominciato a instaurare da tempo un rapporto ambivalente. Odio e amore nei confronti della cinta urbana convivono, a volte maldestramente, in ognuno di noi. Amiamo le nostre città per quanto ci offrono, ma, intimamente, le desideriamo profondamente diverse. Quotidianamente ripetiamo il prologo di un noto film di Woody Allen che, dopo avere elencato tutti i difetti di Manhattan (droga, sporcizia, prostituzione, caos, maleducazione, ecc.) conclude: "Amo New York. E’ la mia città e lo sarà per sempre". Più che nostre, le città siamo noi, per questo i nostri sguardi, sempre un po’ miopi o distratti quando abbracciano vasti orizzonti, diventano acutamente pignoli nei confronti dell’orticello domestico. Un’angolatura ridotta che ci mostra una città straniera, mutata nei colori, nei sapori, nelle forme. E ai più anziani o, comunque, a chiunque non possieda gli strumenti culturali idonei a gestire il cambiamento in corso, la città da estranea si trasforma in nemica. Il disagio è crescente, l’indignazione anche, la paura ci trascina verso forme di autoesclusione, si vive in una prigione materiale e psicologica (non esco dopo una certa ora, chiudo con il chiavistello porte e finestre, non frequento il parco, non mi reco in quel locale, non passeggio solo/a, ecc.) o, ancora peggio, ci spinge a imboccare le scorciatoie dell’organizzazione in proprio, della giustizia cotta e mangiata, del moralismo ipocrita e a basso costo che ripulirà le nostre strade dal male (ronde contro le prostitute, contro i drogati, contro i ladri e così via). Un paradosso nel paese dei "cento campanili", che ha vissuto uno dei periodi di maggior fulgore proprio nell’età dei Comuni, e che esalta i periodi aurei della Roma imperiale, unica urbs tra tanti municipia?

Non necessariamente. La città o il comune medievale che, in alcuni casi, aveva radici anche più antiche, rappresentavano un sorta di associazione indipendente composta da uomini liberi. Liberi da che cosa? Dalle imposizioni e dal dominio dell’Impero e del Papato, le due grandi autorità politiche di quell’epoca. Erano uomini liberi, in un certo senso, dai vincoli e dalla rigidità del sistema feudale che in quel periodo predominava in Europa e memorabili sono rimaste le lotte per l’indipendenza condotta dai Comuni della Pianura Padana contro l’Imperatore Federico Barbarossa. Tra i secoli XI e XIV i Comuni italiani furono i protagonisti di un imponente sviluppo urbano che diede vita a città, grandi e piccole, straordinariamente ricche, belle ed efficienti. In quel periodo, mentre in tutta Europa meno di una persona su venti risiedeva in un centro urbano, in Italia il rapporto era di uno a dieci e Milano aveva raggiunto la considerevole cifra di 40.000 abitanti, quando Colonia, nella Renania, non superava i 5.000. La struttura politico-amministrativa di queste nuove entità, paragonata ai parametri del periodo, si può ben definire "democratica": le decisioni erano prese solo in seguito ad ampie discussioni pubbliche e tutto questo spingeva molti a giurare fedeltà a una struttura che garantiva libertà e sicurezza. La città così concepita apparteneva ad ogni singolo cittadino ed ognuno aveva un grande interesse per il buon governo della cosa comune.

Le città di oggi, cioè quel complesso sistema di relazioni sociali che conosciamo, sono una realtà piuttosto recente. Questo ritardo dell’Italia rispetto ad altri paesi è frutto della veloce trasformazione della nostra società da realtà contadina a industriale e, oggi, postindustriale. Una trasformazione che si è contraddistinta per un inurbamento forte quanto caotico e selvaggio, accompagnato da rapide dismissioni di vaste aree che non rispondevano più alle esigenze produttive, abitative e infrastrutturali del momento. Una situazione, quindi, radicalmente cambiata rispetto alle origini, e non solo per il processo evolutivo subito nei secoli dalle strutture amministrative ed economiche, ma anche nel rapporto instaurato da ogni singolo cittadino nei confronti della città, non più propria, non più noi, ma solo oggetto da usare. Servirsi della città e rimanerne prigionieri è una delle più grandi contraddizioni dell’uomo moderno e il falso mito della sicurezza ad ogni costo ha prodotto il paradossale risultato di avere aumentato le aree di rischio e insicurezza, facendoci pagare un pesante prezzo in termini di libertà di azione e movimento. Sempre più, ad esempio, la geolocalizzazione (cioè la possibilità di localizzare l’utente di un cellulare), misura oggi consentita solo nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria, si trasformerà in un sistema, nemmeno tanto occulto, di controllo totale sugli individui.

Un Grande fratello che da angosciante fantasia futuristica di stile orwelliano si trasforma in cruda realtà? Probabilmente sì, dal momento che - giusto per fare un esempio - il gruppo Siemens, usando una tecnica simile alla geolocalizzazione, ha in progetto la realizzazione di una sorta di "peluche telefonico" per localizzare, via satellite, un bambino che potrebbe essere in pericolo, una sorta di "tata" elettronica che, attraverso un apposito centralino, si occuperebbe di spiare il bambino. Del resto, nel corso delle manifestazioni antiglobalizzazione di Praga e Nizza, la polizia si è servita di un sistema analogo per localizzare i leader della manifestazione e cercare di limitare il loro raggio d’azione. Non sappiamo se un simile sistema sia stato usato anche a Genova nel luglio scorso, ma non è inverosimile. È certo, però, che l’intera cittadina era controllata da un sofisticato sistema di telecamere collegate alla questura e ai comandi operativi di Polizia e Carabinieri. E i risultati raggiunti in termini di sicurezza del territorio e dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti.

I sistemi di videosorveglianza si stanno diffondendo come mai nel passato. Il progetto di telecamere Chromatica, attualmente in fase sperimentale nelle metropolitane di Londra, Milano e Parigi, prevede monitor capaci di evidenziare comportamenti considerati anomali fra i passeggeri. "Ci sono luoghi nel metrò dove non c’è motivo di sostare. In tal caso, il sistema ravvisa immediatamente una possibile situazione pericolosa o per lo meno sospetta" - spiega Louhadi Khoudour, uno dei responsabili del progetto in Francia (Le Monde Diplomatique, settembre 2001).

Collegato ad una rete di telecamere, tale sistema dispone di un computer e di un particolare software d’identificazione: se si resta immobili più di un minuto, l’immagine si tinge di verde sullo schermo di controllo, dopo due minuti l’immagine diventa rossa e scatta l’allarme. Restare immobile troppo a lungo, non camminare nella giusta direzione, fare capannello, oltrepassare le zone vietate, sono tutti comportamenti ritenuti sospetti, immediatamente denunciati dalle telecamere. Quasi inutile aggiungere che le prime vittime di questo sistema di controllo sono stati i barboni e i reietti che trascinano la loro esistenza nelle nostre metropolitane cittadine. Logicamente, in un contesto culturale che esalta il processo produttivo in termini di massima velocizzazione e dinamismo, chiunque non si accodi al flusso costante dei nomadi della produzione denota un comportamento anomalo. Ci troviamo di fronte alla completa e più estesa interpretazione della "tolleranza zero".

Tali sistemi di videosorveglianza si stanno moltiplicando in molte città europee - soprattutto in Francia e in Inghilterra - e anche in alcuni centri storici di importanti città italiane. Le forze politiche, sia progressiste sia conservatrici, che governano le nostre città, giustificano queste scelte parlando di "strumenti che rassicurano i cittadini, rendendo più sicura la città". E, sempre in nome della sicurezza, in tutta Europa si moltiplicano, secondo il modello americano, le residenze o i quartieri residenziali protetti da reti di videosorveglianza ultrasofisticate, con recinti in acciaio, portoni automatici ad apertura con telecomando e telecamere ad alta risoluzione che permettono di visualizzare l’entrata della casa e identificarne i visitatori. Ma che bella città!

E il crimine? Si è, molto semplicemente, adeguato, cambiando luoghi e, soprattutto, tecniche. Eppure basterebbe che i nostri amministratori si fermassero un attimo a riflettere (a onore del vero qualcuno comincia a farlo) e si accorgerebbero che se l’urbanistica non esercita, sicuramente, nessun effetto diretto sull’agire criminoso, è fuori di dubbio che un buon sistema di illuminazione, una migliore conservazione della infrastrutture e degli arredi e, soprattutto, un maggiore coinvolgimento degli abitanti nella gestione delle aree pubbliche, vissute come un’espansione della propria abitazione in senso comunitario, sono gli unici strumenti in grado di ridurre notevolmente le occasioni di attività illecite. Le caratteristiche sociali del luogo, i fenomeni di segregazione ed emarginazione sociale, economica o abitativa, rappresentano le linee guida su cui dovrebbero svilupparsi un’efficace azione di prevenzione e sicurezza.

I fattori storici, culturali e fisici dei quartieri introducono, infatti, elementi che modificano, a volte in modo radicale, la mappa originaria dei gruppi sociali e di reddito e, contestualmente, la mappa virtuale dei conflitti. Per non trovarsi impreparati, e quindi privi di qualsiasi mezzo incisivo per affrontare simili situazioni, gli amministratori, più che innalzare barriere, dovrebbero abbatterle. Un miglioramento delle condizioni di sicurezza di una città dovrebbe prevedere soprattutto l’emancipazione sociale ed economica della popolazione e, di conseguenza, la sua traduzione urbanistica, con l’eliminazione delle barriere fisiche e l’attuazione di elementi di attrazione e servizi capaci di favorire le relazioni sociali anche tra residenti di diversi quartieri della città. La convinzione che tutto possa essere gestito nello spazio ristretto di un quartiere blindato porta ad un disconoscimento del resto del territorio, un’estraneità che può trasformarsi facilmente in inimicizia, pregiudizio, pericolo.

Specchio delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita, le aree pubbliche e i condomini privati presentano i tratti specifici della maggiore conflittualità in termini di convivenza e corresponsabilità dei suoi residenti. Lo studio sociologico dei fenomeni di vandalismo dimostra come in questa problematica giochino fattori molto diversi, da un atteggiamento paternalistico dell’amministrazione a situazioni di sradicamento degli abitanti, a fattori culturali quali la mancanza generalizzata di un’educazione alla conservazione collettiva. E’ evidente a tutti che gli spazi aperti destinati al tempo libero, e non all’utilitaristica produzione, sono una parte importante della città. Le strade e i viali sono, o per lo meno dovrebbero essere, spazi animati e frequentati, le piazze e i parchi luoghi di contatto con la natura, ma anche luoghi per comunicare, godere di tranquillità, praticare uno sport e far giocare i più piccoli: spazi, in altre parole, di libero uso e accesso, pensati per migliorare la qualità della vita dei cittadini. La cancellazione di queste aree con politiche che tendono a trasformarle in ghetti di disperati o, in senso diametralmente opposto, in spazi blindati e inaccessibili, producono solo effetti negativi sul piano della sicurezza.

Concludendo, possiamo affermare che vivere in una grande città provoca nei suoi abitanti un senso di profondo malessere. Da ciò il sentimento di non appartenenza, il disamore spinto sino a comportamenti distruttivi esercitati sul comodo terreno della negazione o del disconoscimento della corresponsabilità civile.

Nel corso della storia umana, così vilmente terrena anche quando si ammanta di dogmi religiosi, abbiamo distrutto quanto di più meraviglioso e perfetto eravamo riusciti a edificare: Troia, Pompei, Atene, Gerico, Cordova, Tenochtitlàn, Gerusalemme, Hiroshima, Dresda, Beirut, Sarajevo, Grozny, Stalingrado, Berlino, Genova, New York, Kabul. Infinite orde barbariche o eserciti più o meno regolari, hanno invaso, saccheggiato, bombardato, distrutto o profondamente ferito le città, ucciso milioni di persone, uomini e donne, anziani e bambini. Per ostilità, odio, ma anche per una forma aggressiva d’invidia-ammirazione, perché, in fondo, la città è bellissima, sempre all’avanguardia, moderna, animata da spiriti liberi, viva anche quando la corruzione e l’illegalità ne intaccano la struttura. Non ama le grandi città chi non può viverle nella loro completezza.

Al di là della facile demagogia, la storia dei muri eretti in nome della sicurezza e abbattuti in nome della libertà dovrebbe pur averci insegnato qualcosa.

Rinchiusi nelle proprie fortezze, gli abitanti del castello non sono mai riusciti a salvarsi dalla solitudine e ne sono stati miseramente travolti.