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In coda, in Palestina

La coda è una cosa normale nelle nostre affollate città; amici mi dicono che anche la mia piccola città d’origine, in Trentino, è schiacciata dal traffico e dalle code che si formano a causa di lavori in centro. Un altro amico mi riferisce il dibattito sempre aperto sulla viabilità caotica della Valsugana, si parla di incolonnamenti, code e rallentamenti. Anche a livello di uomini ci sono le code e le attese nella vita di ognuno, alla posta, in banca, alla stazione, o magari, se sei straniero, in questura.

Quando si è in coda è naturale innervosirsi: qualche maleducato ci passa davanti o forse qualcuno prima di noi è troppo petulante con l’impiegata. Anche quando si è in macchina è facile arrabbiarsi, magari qualcuno ci taglia la strada, uno va troppo piano, frena di colpo, o magari siamo finiti in un ingorgo. Sono situazioni che conosciamo e cerchiamo di evitare.

Questa mattina sono stato fermo in una coda di macchine, in maggioranza taxi gialli, vecchi Mercedes a sette posti. C’erano anche due ambulanze, un camion che trasportava bibite e un autobus. Qui in Palestina la coda è usuale, tanto che da un po’ di tempo ci sono dei piccoli chioschi che vengono smontati quando la coda si dissolve. Si trova da bere e da mangiare: ci sono i kebab (una specie di salsicce che messe in un panino con salsa piccante sono appetitose), e i falafel, delle polpettine fatte con un impasto a base di ceci, anch’essi molto appetitosi. Per chi si vuole rinfrescare, invece, bambini e ragazzi, con piccoli frigo da campeggio a tracolla, offrono delle granite ad una cifra modica.

Come sempre da queste parti, le cose normali sono agghiaccianti. Questa coda colorata e rumorosa è agghiacciante. Sono ad Abu Holi, una località che sta poco fuori Khan Younis e che dà il nome al check point che taglia il traffico di persone e cose da nord a sud. La coda, questa mattina, si è formata perché qualcuno in Israele ha deciso così. La strada è rimasta aperta dalle sei alle sette e mezza, e quelli che hanno dormito un po’ di più sono rimasti bloccati. Sono da poco passate le otto quando troviamo un taxi che speriamo ci porti in fretta a Gaza city, dalla quale speriamo di trovare un mezzo fino al check point di Erez che è la porta sigillata tra Gaza e Israele e che solo noi fortunati possessori di un passaporto straniero possiamo oltrepassare. Ma stamattina, da poco passate le otto, da qui si arriva solo alla coda: niente Gaza City, niente Erez, niente Israele, niente Gerusalemme.

Mi sono trovato altre volte in questa coda inusuale, ma non mi sono ancora assuefatto alle normalità palestinesi. Osservo: un’ambulanza cerca di passare per due volte ma viene rimandata indietro. Un’altra passa solo dopo che l’autista si ferma a parlare con un uomo seduto in una jeep blindata color bianco. Riconosco quella macchina, è quella dell’amministrazione civile israeliana guidata dall’ufficiale responsabile della sicurezza degli insediamenti. E’ la macchina che tutte le sere alle otto decreta l’inizio del coprifuoco nelle zone limitrofe alla strada in uso ai coloni israeliani.

Altri ragazzi cercano di avvicinarsi alla torretta, dove i soldati stanno asserragliati, per parlamentare; nell’avvicinarsi devono avere l’accortezza di alzare la maglietta e aspettare l’ordine del soldato per procedere. La risposta alla richiesta è negativa; qualche soldato invita a ripassare domani, altri consigliano ironicamente chi è in attesa di andare a casa a mangiare. C’è nervosismo in chi aspetta, ma oggi vedo soprattutto rassegnazione e attesa. Tanti si affrettano a raccontarci cos’è questo posto, non sanno che in questi ultimi mesi è diventato un po’ anche casa nostra, che la loro normalità è un pochino anche la nostra. Noi siamo al secondo tentativo. Fra la folla incontriamo amici, io rivedo un ragazzino conosciuto mesi fa: sono andato a dormire a casa sua che si affaccia proprio su quella strada che ha il coprifuoco notturno. Questo ragazzino con molti gesti e poche parole mi spiega che lui a Gaza city ci va per vedere il mare, o meglio per poterlo toccare. Da qui il mare si vede ma non ci si può andare, c’è il blocco degli insediamenti ebraici che non lo permette. Mi immergo nella lettura per ingannare l’attesa, ma soprattutto per placare la rabbia che mi cresce dentro e che si scontra con la mia incapacità di trovare una soluzione. Mi limito a fissare la torretta, la jeep bianca e la strada che si interseca con la nostra; osservo anche il cavalcavia che sovrasta la strada, racchiusa tra le due torrette, che dovremo percorrere se verrà il sì dei soldati. Osservo e vedo che il traffico israeliano è scarso, la situazione è tranquilla, non ci sono nemmeno troppe proteste palestinesi.

Un grosso perché mi cresce dentro, sempre più forte: perché chiudere la strada quando il passaggio non lederebbe la sicurezza dei coloni né tantomeno quella di Israele? E’ vero, nei giorni scorsi ci sono stati due attentati a Tel Aviv, i soldati di Israele hanno colto l’occasione per delegittimare ulteriormente Arafat e questa notte anche qui ci sono state manifestazioni per la strada. Tutto vero, ma non riesco ancora a darmi una risposta. La risposta che cresce assieme alla rabbia è un’accusa grave per uno Stato che si dice democratico: punizione collettiva, apartheid, discriminazione. La risposta è quella, non c’è nessun motivo militare per bloccare questa strada oggi, non c’entra la sicurezza di Israele: il ragazzino mio amico ha diritto di vedere il mare e di toccarlo.

Guardo quella torretta e la rabbia è tanta, penso a chi sono io. Sono un giovane pacifista, credo nella nonviolenza, non amo e non condivido nessuna azione violenta. Sono italiano, col mio passaporto posso aspettare e poi andarmene da questo posto, se ci fossero problemi ci sarebbe un’ambasciata che mi aiuterebbe, posso uscire quando voglio da questo posto. Ma nonostante tutto questo sento rabbia. La razionalizzazione dei miei sentimenti mi permette però di fermarmi prima dell’odio. Se odiassi avrei finito, dovrei tornare a casa. Ma c’è rabbia in me! Io posso uscire, io sono italiano, io sono garantito, ma c’è rabbia. Ora capisco chi vuole violentemente, con gli attentati, ribadire la possibilità di non aspettare più. Capisco, non condivido. Cerco di razionalizzare e la risposta che mi do è sempre la stessa: questa non è guerra al terrorismo, questa è guerra d’aggressione che favorisce il terrorismo.

Lo so, molti in Italia, non mi capiranno, penseranno che ho preso una parte; non è così, sto solo vedendo delle cose. Questa attesa non è sicuramente terrificante come la detonazione seguita dalle sirene delle ambulanze ma questa attesa è il rumore che si sente prima dello scoppio. Se veramente ho preso una parte, penso che sia quella di chi in Israele ha capito questo e per questo va in galera come traditore.