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Veline

Dalla televisione alla musica: senza impegno, per favore. Oggi tutto è sottofondo, accompagnamento, mentre siamo sempre occupati in qualcosa d'altro.

E finalmente possiamo collaudare i nuovi digestivi Antonetto che mitigheranno le doglie postprandiali delle nostre serate a casa, esclusa la domenica perché Striscia si riposa. Sì, parlo delle 2 sirenette televisive, le veline. E per restare in tema di sirene, tra gli scogli di Scilla e Cariddi era ubicato il programma che le ha reclutate: ha attratto diabolicamente migliaia di ragazze al canto di "sarete famose!", senza che nessun Ulisse si mettesse di mezzo con i tappi per le orecchie. Ma ha attratto anche milioni di italiani, con uno share televisivo ineguagliato nel periodo estivo. E mica i telespettatori potevano essere tutti voyeur, guardoni di ex lolite... Quando l’Auditel riporta cifre oltre i 7 zeri il discorso di categorizzare a spanna non regge più.

Lo show del reclutamento delle veline era godibile: scivolava via, così, tra un hip-hop e una salsa, qualche sgambata, qualche spontaneo ammiccamento e qualche battuta senza sale del conduttore. Insomma era davvero un programma poco impegnativo, fatto con nonchalance, e si prestava benissimo come sottofondo mentre si finiva la cena o si esaminava la posta elettronica. Il regista del programma si comportava come le persone di buon senso quando sono costrette a dire una cosa stupida: la dicono così, senza darle importanza, magari sorridono e te la rendono quasi simpatica. Non si mettono a declamarla, chiedendo il silenzio dell’auditorio dopo uno squillo di trombe (come a Miss Italia).

Fa un po’ specie leggere che gran parte delle ragazze d’oggi, anche tra quelle ben scolarizzate, si sentirebbe completamente realizzata nel ruolo di velina. Pare che i sogni di realizzazione delle teen-ager siano più pragmatici, possibilisti e quindi mediocri rispetto a quelli della generazione precedente i cui miti li allocava in Joan Baez o Janis Joplin. Non è lecito sapere se la personalità delle eroine di ieri fosse più profonda di quella delle vallette di oggi, non c’è dubbio però che venisse interpretata dal pubblico come complessa, vulcanica, socialmente impegnata, anticonvenzionale... Le veline Giorgia ed Elena possono anche avere il cervello di Einstein, ma non per questo motivo sarebbero ammirate ed emulate dalle loro aspiranti colleghe. E’ quasi banale e scontato far notare come l’estetica dello "scivolar via" consista in una tendenza della nostra recente cultura, in un modo sempre più leggero e strumentale di concepire l’arte.

A pensarci bene la musica che fa da sottofondo alla nostra epoca è adeguata allo show. Scorre senza impennate. Anche quando urla e fa baccano non dice quasi mai. Anche quando pare incazzata spesso ruggisce da dentro una gabbia. E’ tecnologica, a volte razionale e ben confezionata, con suoni ed effetti campionati sempre più mirabolanti, intrecciata ritmicamente con l’efficacia di un nido di mitragliatrici e la precisione computerizzata di un simulatore di volo. Però ha sempre più un ruolo contestuale e, paradossalmente, primitivo rispetto all’ambiente: serve ad accompagnare le veline mentre ballano e accompagna noi mentre balliamo, e mentre parliamo, ceniamo, ci addormentiamo, lavoriamo, andiamo in macchina, facciamo la doccia e chissà quante altre cose... Magari la sua suggestione ipnotica ci serve pure per fare la meditazione o il Tai Chi. Però la ascoltiamo sempre meno, sempre meno le permettiamo di occupare tutto il nostro cervello anche per una sola mezz’ora ogni tanto. Perché il nostro cervello si è ormai così abituato a pensare tante cose che, poveretti noi, ci annoieremmo a morte se non ne ottimizzassimo il rendimento: così possiamo discutere al cellulare mentre giriamo la pasta e nel frattempo dare una scorsa di sbieco al compito del bambino e - perché no? - ci restano le orecchie per una tiritera di Sitar offerta da una remota stazione pakistana, grazie all’antenna parabolica.

Il mio compagno di liceo Marco sapeva simulare perfettamente tutto l’assolo di John Bonham di Moby Dyck. Non era maniacale, il suo era solo l’estremo di un modo di trattare con la musica che all’epoca era comune a molti di noi (e non solo a quelli che suonavano). Non c’erano vuoti da riempire quando si mettevano su gli Zeppelin o i King Creamson. La musica era lì a dire qualcosa che, con un rispetto non sempre riservato ad altri interlocutori, noi ascoltavamo.