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La deriva del processo penale

Come sta cambiando la giustizia in Italia.

La trasformazione del processo penale da inquisitorio in accusatorio, avvenuta nel 1988, comporta un mutamento nei ruoli del giudice e delle parti (PM e difensore) e nella stessa dinamica processuale. Ciò deve considerarsi fisiologico, dato che lo scopo del processo non è più quello di accertare la verità reale, ma solo quella giudiziale risultante dagli atti. In sostanza il processo si trasforma in duello tra le parti, in cui il giudice funge sostanzialmente da arbitro, pur conservando notevoli poteri. Accadeva e accade spesso che l’abilità e la preparazione del difensore o del PM falsino il risultato e lo indirizzino verso un’assoluzione o una condanna non meritate.

Questa trasformazione del processo penale non doveva però scalfire alcuni punti fondamentali ritenuti appunto intoccabili: il monopolio della prova, l’obbligatorietà dell’azione penale, l’indisponibilità della materia, ecc.. E’ accaduto invece che una deriva in parte involontaria, e in parte favorita da una discutibile giurisprudenza, abbia investito i principi della procedura ritenuti intoccabili.

Nel processo inquisitorio il magistrato aveva il monopolio nella acquisizione e nella formazione della prova. Sul punto anche il nuovo codice del 1988 ribadiva all’articolo 190 che le prove venivano ammesse a richiesta di parte. Al giudice restava quindi il potere di ammetterle o di respingerle, in tutto o in parte, in forza della sua vocazione egemonica in materia di prove. Successivamente, auspice la giurisprudenza, la legge n° 332 del 1995 ha previsto che il difensore potesse presentare direttamente al giudice elementi di prova raccolti a seguito di investigazione privata. Infine gli articoli 391 bis e391 decies hanno introdotto la formazione del fascicolo del difensore per le decisioni del giudice. Ciò significa chiaramente che la disponibilità della prova sta passando, o è già passata, dal giudice alle parti (PM e difensore).

Una stella fissa del cielo giurisdizionale è l’obbligatorietà dell’azione penale, e ciò a causa della rigidità dell’art. 112 della Costituzione. Ciononostante, una falla si è aperta sul punto. Mentre prima si accettava tacitamente e ipocritamente la necessitata discrezionalità della scelta di ogni magistrato per smaltire l’arretrato, ora il legislatore ha ritenuto di fissare esplicitamente criteri di priorità nella gestione dei processi: in particolare, con l’art. 227 d. lgs. n° 51 del 1998 ha previsto che nella trattazione dei procedimenti pendenti si terrà conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che il ritardo può causare per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti. La discrezionalità viene razionalizzata ma il principio è vulnerato.

Una volta il processo era retto dalla regola ferrea della indisponibilità della materia penale. Ora, inserendo l’elemento del consenso sia in tema di prova che in materia di itinerari procedurali, si è assegnato un sempre maggior peso al comportamento processuale delle parti. In questa prospettiva possono essere inquadrate le condotte riparatorie e risarcitorie dell’indagato, la sospensione e la messa in prova del minore, le tecniche conciliative e la mediazione, l’oblazione, la remissione della querela, tutte variamente tese all’estinzione consensuale o volontaria del processo, prefigurando uno schema di giustizia negoziale.

Altre argomentazioni potrebbero essere sviluppate. Mi chiedo se questa deriva vada ritenuta irreversibile verso sviluppi non prevedibili, o debba vigorosamente essere governata per la rinnovata esigenza di una giustizia rapida, efficiente e giusta.