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Lettera dalla Palestina n° 1

Lorenzo (www.operazionecolomba.org )

Questa mattina siamo andati a Khan Younis al Nasser Hospital a fare visita ad un nostro amico ricoverato per problemi allo stomaco. Stando lì con A. abbiamo avuto la possibilità di incontrare il padre di un bambino che in questi giorni sarebbe dovuto partire per l’Egitto (tramite il Medical Relief Committees, Ong palestinese) per essere operato alla schiena nella zona lombare dove da mesi ha una scheggia d’artiglieria che qui nella Striscia non riescono ad estrarre. Grazie anche ai 3000 dollari che l’Operazione Colomba è riuscita a raccogliere, il bimbo sarebbe dovuto partire se la famiglia, che ha dodici figli, non fosse concentrata trepidante su quello ventenne, ricoverato nella sala rianimazione dell’ospedale della città.

Fin qui potrebbe sembrare una storia come tante al mondo, ma di fatto non lo è. Le malattie che colpiscono più frequentemente, direi quotidianamente, qui nella Striscia di Gaza, hanno nomi particolari e semplici da ricordare: schegge, proiettili, bombe e missili. I virus che infestano anima e corpo sono definiti col nome di occupazione militare, guerra preventiva, terrorismo di-stato che è causa di quello di-sperato. Facendo un passo indietro, è facile ritrovarsi a due giorni fa quando, durante la notte, l’area di Namsawi, campo profughi di Khan Younis, è stata invasa dai militari israeliani che invece di colpire preventivamente cellule del terrorismo islamico, hanno infierito contro la popolazione civile palestinese dei palazzoni adiacenti l’ospedale.

Già da tempo gli uomini e i ragazzi di notte lasciano le famiglie nelle case di Namsawi già martoriate dai colpi d’artiglieria israeliana e si rifugiano nell’area dell’ospedale. In questo modo, con la loro assenza, proteggono le loro famiglie e loro stessi, che la propaganda israeliana definisce categoricamente terroristi. Due giorni fa, durante l’attacco, il figlio di vent’anni, che si trovava all’interno del recinto dell’ospedale, è stato ferito da cinque proiettili di mitragliatore che lo hanno obbligato a venticinque sacche di sangue di trasfusione e lo costringono a rimanere inchiodato al lettino della sala rianimazione del Nasser Hospital in attesa che la volontà di Dio si compia.

La stessa notte il muro di cinta dell’ospedale è stato distrutto in due punti dall’Israeli Defence Force (IDF) per permettere ai soldati asserragliati nei loro blindati di entrare nell’area dell’ospedale per colpire i civili palestinesi che cercavano protezione e quei pochi tiratori che dal tetto provavano a fermare l’invasione a colpi di kalashnikov. Questa la giustificazione e legittimazione della (re)azione israeliana che ha ucciso tre persone, ferito lasciandolo in fin di vita, questo giovane di vent’anni e il vilipendio di un ospedale protetto da quelle convenzioni che sembrano non avere importanza né riconoscimento.

La stessa notte, per difendere l’ospedale e l’uscita delle ambulanze cui puntualmente non viene permesso il soccorso dei feriti, i palestinesi sono riusciti a far saltare in aria tre tanks che avrebbero circondato l’ospedale, piazzando grandi quantitativi di esplosivo sotto l’asfalto e, in questo modo, impedire l’avanzata dei corazzati per quelle vie.

E’ la prima volta che la resistenza palestinese si organizza unita, senza distinzioni di fazione politica, ottenendo risultati militari incisivi che la propaganda israeliana preferisce non far sapere per non vedere minato il mito della propria invincibilità e il mito dell’impotenza palestinese. Questa operazione di resistenza porta la gente di Khan Younis ad aspettarsi gravi ritorsioni e nello stesso tempo a riconoscersi possibilità e capacità concrete fino ad ora mai sperimentate.

In mezzo a tutto questo, la storia di una famiglia povera di Khan Younis sembra non avere effetti sostanziali sulla situazione di occupazione e conflitto vecchia decine d’anni, ma proprio questa e tante altre contribuiscono a quella Storia che nessuno conoscerà mai, da cui nessuno vorrà mai essere toccato sperando che prima o poi tutto passerà.