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Matrix Reloaded

Irritante il sequel del celebrato "Matrix": una frullata di messianesimo New Age, ciberpunk, e frasi vuote, che non riescono a nascondere, nella noia dei dialoghi, l'assenza di una storia. A questo punto, visto il fratello scemo, sorgono dubbi anche sul famoso primogenito...

Ma quando comincia il film? Questo spottone per il videogioco ispirato a "The Matrix" dovrà pur finire. Non può essere questo l’atteso seguito di uno dei film più "nuovi" e celebrati degli ultimi anni, "The Matrix", condensato di qualche decennio di fantascienza e a sua volta modello di centinaia di imitazioni in tutti i rami in cui si declina l’immaginario audiovisivo. E invece "Matrix Reloaded" è tutto qua.

Partiamo dalle scene di combattimento. Sono riprese con spreco di effetti digitali e di macchine da presa, e sono girate "alla Matrix". La grande scoperta del primo film non era altro che l’ennesimo import tecnico-stilistico sulla tratta Hong Kong-Hollywood: le scene d’azione - che per statuto devono essere veloci e incalzanti - vestono un abito nuovo e sorprendente se rallentate e fermate in aria. Il problema è che, dopo averci impressionato una volta, fanno fatica a impressionarci una seconda, soprattutto se non risultano funzionali alla storia, ma sono di una gratuità esasperante: iniziano e non si vede l’ora che finiscano. E’ noioso come guardare da dietro le spalle un ragazzino alle prese con un videogioco di kung-fu.

I registi, i fratelli Wachowski, dichiarano i loro debiti teorici al cyberpunk, quella fantascienza che racconta la dissoluzione del reale nel virtuale e la costruzione in abisso della nostra presenza nel mondo. Al cyberpunk appiccicano una buona dose di neo-spiritualismo, filosofie orientali in quantità e un pizzico di numerologia. Mescolando il tutto, si ottiene un deciso sapore di messianesimo; al punto che, per essere sicuri di essere capiti dall’adolescente americano, fanno vestire Keanu Reeves da bolso prete New Age. Peccato che tanto sudare sui libri produca interminabili dialoghi finto-filosofici che, non riuscendo quasi mai a trovare una spiegazione logica al divenire della storia, diventano subito tautologici ("Dobbiamo farlo perché dobbiamo farlo…").

Ma a svelare l’idiozia del film basterebbero i vari nomi assegnati ai protagonisti e alle astronavi, metà mitologici, metà da giochi di ruolo. Poi: è vero che "Matrix 1" lo hanno visto tutti, ma è lo stesso fastidiosa la presunzione di non dover spiegare nulla della storia, ma assolutamente nulla, a chi per sbaglio avesse qualche vuoto di memoria. I Wachowski puntano sulle strizzatine d’occhio, sul prendere o lasciare, sul raddoppiare, triplicare, quadruplicare gli ingredienti del successo del primo film. Questo problema, comune a tutti i sequel, trova in "Matrix 2" un esempio da manuale.

Le ambizioni di critica alla virtualizzazione del mondo sono mangiate da una riduzione ai sani vecchi abusati temi della fantascienza classica: la città-formicaio sotterranea (ma da dove salta fuori?), le astronavi, i super-poteri.

L’unico barlume di interesse del film è costituito dalla scoperta che la resistenza di Keanu Reeves e soci è prevista da Matrix - il software che ha creato e gestisce il mondo virtuale che imprigiona le menti degli uomini, mentre i corpi fisici servono da fonte energetica per le macchine. L’opposizione clandestina è utile alla dittatura. La resistenza al potere fa parte dei giochi che lo costituiscono. OK. Interessante. Insomma: i fratelli Wachowski forse hanno letto anche Foucault, oltre ai dichiarati William Gibson e Philip Dick.

Peccato che la "rivoluzionaria" trilogia di Matrix (il terzo episodio esce in autunno) sia completamente funzionale a questa logica appena evidenziata: un’opposizione al sistema utile alla costruzione della realtà propria del sistema stesso.

L’ideologia su cui è costruita la saga fa acqua da tutte le parti: da un lato si critica la dittatura dei computer, che ormai dominano il mondo e virtualizzano la realtà; dall’altro, attraverso i computer, si crea un film di effetti speciali, che non aspetta altro che essere tradotto in videogioco - a tutt’oggi l’esempio più concreto di proiezione nel costrittivo mondo virtuale. Alle macchine, di fatto, facciamo già da combustibile. A questo punto, perso per perso, viene decisamente voglia di tifare per la Matrice. Tanto, il mondo che essa crea è proprio uguale al nostro.

A questo punto aveva ragione chi sosteneva che la vera Matrix è Hollywood: è Hollywood la macchina che crea simboli e immagini del mondo di cui noi siamo costretti a servirci. Interpretando un po’, i cattivi, tanto sbertucciati nel film, sono proprio quelli che il film l’hanno pagato.

Chi aveva dunque nutrito qualche dubbio sulla sincerità dell’originale può ora, col senno di poi, smascherarne tutta la furbizia. Ma non sarebbe giusto giudicare la gloria del primogenito a partire dal fratello scemo che i due Wachowski gli hanno partorito dietro.

Una delle scene di culto del primo Matrix è quando Neo, il protagonista, deve scegliere tra due pillole. La rossa gli avrebbe fornito la consapevolezza di essere prigioniero delle macchine, di vivere in un non-mondo; con la blu, avrebbe scelto di non sapere, di non andare più in là con la storia, di fermarsi lì. Stavolta, avremmo tutti preferito mandar giù la pillola blu.

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