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Pubblici ministeri e libertà di stampa

Considerazioni in merito a due proposte governative.

La riforma governativa del Pubblico Ministero tende a diminuirne i poteri e a sottrarlo alla unità della giurisdizione. La motivazione espressa dall’avvocato on. Pecorella ha una apparente persuasività: se il giudice deve essere "terzo", secondo l’articolo 111 della Costituzione, il Pubblico Ministero non può appartenere allo stesso ordine dei giudici.

L’opinione non può essere condivisa, perché la "terzietà" del giudice significa solo la sua sostanziale estraneità alla formazione della prova, o meglio alla sua non preventiva conoscenza della prova che deve essere formata in contraddittorio di fronte a lui. Ma giudice e P. M. hanno in comune la tutela dei valori di stabilità sociale appartenenti alla intera collettività. Il P. M. in particolare rappresenta nel processo penale la collettività offesa dalla violazione del patto normativo. Funzione che non può appartenere al difensore, che tutela invece un altro diritto fondamentale: la libertà dell’individuo.

Non credo che una totale parità reale tra difesa e accusa sia veramente realizzabile. Basti pensare che l’onere della prova spetta soltanto al P.M. (e non è poco, per definirlo svantaggiato in partenza). Ma c’è inoltre una differenza ontologica che non va dimenticata: la conoscenza piena dei fatti appartiene esclusivamente all’imputato, e al P. M. tocca scoprirla. "Giusto processo" significa processo "democratico", non altro, e si concretizza nella terzietà del giudice, nella sua imparzialità, nel contraddittorio e nella ragionevole durata. La cosiddetta "parità reale" si realizza nella formazione della prova, perché l’esigenza di parità non significa eguaglianza di poteri, ma identità di occasioni partecipative ai momenti fondamentali del processo. Non bisogna mai dimenticare che lo scopo fondamentale del processo è realizzare in concreto l’idea di giustizia, cioè ricostruire la vicenda che ne è oggetto.

Non è separando le carriere dei giudici e dei P.M. che si realizza questo obiettivo. L’emendamento presentato dal Governo alla legge delega mira non solo a dividere in modo strisciante le due carriere, ma a depotenziare il ruolo del P.M.: gli sottrae per esempio i poteri di iniziativa investigativa, che vengono delegate alla Polizia Giudiziaria. Si prefigura così un processo in cui il P. M. ha solo un ruolo rappresentativo dibattimentale.

L’emendamento inoltre propone concorsi separati, e disegna l’ufficio del P. M. in modo verticistico e gerarchizzato.

Tutto ciò va in una direzione pericolosa. Nega infatti che la funzione del P. M. (come quella del giudice) sia quella di tutela della collettività, che è possibile solo a condizione della "unità della cultura della giurisdizione". La identità di conoscenze giuridiche e giudiziarie è tanto più indispensabile (come ha osservato il prof. Giuseppe Riccio) quanto più le funzioni si articolano in modo differente.

Non è questione di forma, ma di sostanza: il P.M. deve avere profonda cultura probatoria, sia per non istruire processi "bolle di sapone", sia perché alle sue eventuali carenze non può sovvenire l’iniziativa del giudice (come avveniva nel processo inquisitorio).

Il concetto di cultura della giurisdizione esprime il bisogno di essere "signori della prova", indice di comune professionalità dei protagonisti del processo. Si può concludere affermando che l’unità della giurisdizione è più congeniale al sistema accusatorio che a quello inquisitorio. Il P.M. quindi non va disarmato.

La diffamazione è un reato grave o no? Credo sia questa la domanda cui bisogna rispondere per fare chiarezza nel confuso dibattito che è seguito alla proposta governativa in materia.

L’onore e la reputazione di una persona costituiscono la sostanza specifica del soggetto e la sua identità nella collettività in cui vive, la stima e la credibilità di cui gode, lo stigma morale che lo contraddistingue. Senza onore l’uomo è come una moneta falsa. L’onore è paragonabile alla vita fisica, tanto che la diffamazione può essere avvicinata all’omicidio volontario, sulla cui gravità non si discute.

La diffamazione può distruggere una persona, annichilirla, esporla al pubblico ludibrio, condannarla per sempre al disprezzo degli altri. La vittima diventa un esiliato in Patria. Le conseguenze della diffamazione si sono da tempo aggravate con il moltiplicarsi dei mezzi di informazione, scritti e televisivi, e con la loro diffusione sempre più veloce. Uno spot, un’intervista, una frase possono letteralmente uccidere in un istante, e non c’è rimedio che non si riveli un palliativo.

Si afferma da più parti che punire la diffamazione vuol dire colpire la libertà di stampa. Non è assolutamente vero. La Costituzione della Repubblica e la Convenzione europea stabiliscono che libertà di stampa e rispetto dell’onore hanno pari dignità giuridica, e che entrambi gli elementi sono costitutivi della democrazia. Dovere e diritto del giornalista è pubblicare notizie di pubblico interesse per garantire a tutti una informazione veridica e la possibilità di esercitare il controllo sul corretto funzionamento delle istituzioni politiche: questo diritto-dovere deve rispettare non solo la verità dei fatti, ma anche l’onore e la reputazione del cittadino. Il giornalista che scrive una notizia diffamatoria non fa informazione libera ma illecita, degradando l’intero sistema e violando lo Stato di diritto. Non vedo perché non debba essere punito penalmente. Una cosa è dissentire, criticare, polemizzare anche aspramente (il che è diritto costituzionale e fondamento della democrazia); altra cosa invece è pubblicare notizie false e disonoranti, che possono distruggere la reputazione di una persona.

La Corte di Cassazione ha da tempo stabilito tre condizioni perché l’informazione non debba essere ritenuta offensiva:
1. il fatto narrato deve essere vero;
2.
le parole usate devono essere continenti;
3.
la conoscenza della notizia deve essere di interesse pubblico.

Rispettando queste tre regole il giornalista può scrivere quello che vuole.

Io credo che questa giurisprudenza debba essere tenuta ferma, pena la degradazione dell’informazione e la trasformazione del cittadino in suddito, preda del corvo di turno.

Può darsi che qualcuno mi consideri un "forcaiolo". Ma non lo meriterei. Io ho un’alta opinione della funzione dei giornalisti, che sono le sentinelle della democrazia. Per questo non bisogna concedere loro la "licenza di uccidere" con le parole. Se la concediamo ai giornalisti, perché non a tutti?

Non è una boutade: se la riforma passasse senza modifiche, i diffamatori "semplici" (quelli non a mezzo stampa) continuerebbero ad essere perseguiti e puniti, il che non sarebbe né giusto né costituzionale. Inoltre la "potenza di fuoco" dei giornalisti è assai maggiore di quella dei semplici cittadini, e correremmo il rischio di avere una informazione deformata e faziosa.