Un Molière per la stagione autunno-inverno
Il Misantropo attualizzato dal regista Roberto Guicciardini: un'operazione portata avanti solo a metà, senza tenuta d'insieme, che la buona recitazione non basta a riscattare.
L’avevamo atteso a lungo Il misantropo di Molière, ma dopo averlo visto ci sentiamo più delusi che soddisfatti. Certo, i meriti ci sono, a partire da una recitazione valida nel complesso. Ottime, difatti, le prove del protagonista Mariano Rigillo (Alceste) e femminili, tra cui spiccano Anna Teresa Rossini (Celimène, un po’ incerta sulle prime) e Liliana Massari (Eliante). Inoltre, per una volta, il lavoro sugli attori è stato portato avanti in modo serio e competente, con un’attenzione inusuale per la gestualità, persino in personaggi secondari come Bosco, che, coi soli movimenti delle mani, tenta di ricostruire i passaggi di un biglietto dimenticato.
La pièce, tuttavia, ha una grave falla nella tenuta d’insieme. Gli elementi che la compongono, presi singolarmente, ne farebbero un pregevole lavoro; ma accostati gli uni agli altri si neutralizzano a vicenda. La traduzione-adattamento di Roberto Guicciardini vorrebbe attualizzare il testo originale, peccato che l’operazione coinvolga solo le parole lasciando il resto in balia di una babele temporale. Le belle musiche di Nicola Piovani, ad esempio, non sono del tutto contemporanee ma nemmeno secentesche quanto a ispirazione. Mentre gli splendidi e sontuosi costumi, firmati Versace e Manola Romagnoli, cozzano con le scene minimali di Piero Guicciardini. Il palco è quasi privo di oggetti scenici, con l’eccezione di quattro "pannelli mobili universali" (che fungono da pareti divisorie, porte, separé…), due alberelli per il giardino e altrettante scale da biblioteca. Gli abiti, al contrario, li abbiamo ammirati fra danze e svolazzi vari, eseguiti ad arte perché osservassimo meglio ogni dettaglio, neanche fossimo ad una sfilata di moda invece che a teatro. Del resto, cos’altro potrebbe accadere quando ci si affida a degli stilisti invece che a dei costumisti? E se è vero, come è stato scritto, che Il misantropo è "un testo sostanzialmente da ascoltare", tanto valeva sacrificare il senso della vista per intero.
Viene il dubbio di essere di fronte ad un caso di nepotismo nella famiglia dei Guicciardini (che a suo tempo, però, allestirono con intelligenza l’Enrico IV di Pirandello, vedi Scaramucce per l'"Enrico IV") e soprattutto ad un’operazione pseudo-commerciale per lanciare i nuovi modelli di Donatella Versace e delle sorelle Romagnoli. Per fortuna la bravura del cast, se proprio non fuga tutti i dubbi, è in grado di dare alla pièce un valore innegabile, sia pure quanto meno dimezzato. Da una parte si tende al risparmio, dall’altra si stupisce con il lusso. E la coerenza? E l’unità dell’opera? Se si vuole rendere moderno un testo non basta operare su un singolo aspetto, soprattutto se si tiene conto che il teatro non è mai, o quasi, "teatro di parola", ma coinvolge linguaggi non verbali di varia natura, dalla mimica alle scene, dalle musiche ai costumi. Perché svecchiare qua e là per poi lasciare intatti i nomi fittizi dei personaggi? Nel Seicento un Alceste, un Clitandro, un’Arsinoè erano all’ordine del giorno sopra un palco, legati com’erano a precisi caratteri. Ma oggi? E poi, quante donne moderne avranno mai indossato un solo abito fra quelli sfoggiati da Celimène? Alla fine l’attualità del testo si riduce a qualche allusione, e ci si perde tra auto, partite di calcio, campanelli, persino gli "omini" di Chagall… In compenso il maggiordomo in livrea non ha nulla di contemporaneo che possa ricordarci il nostro vivere quotidiano. E lo stesso vale per i vari duchi e marchesi in un’Italia che si è lasciata alle spalle monarchia e titoli nobiliari da un buon cinquantennio.
La nostra perplessità, tuttavia, è dovuta anche ad un altro fattore, vale a dire il contesto, l’occasione stessa in cui prese forma quest’opera nel 1666. Tartufo, geniale ma troppo irriverente, non era stata rappresentata (Molière dovrà aspettare tre anni) e si moltiplicavano le voci sul legame con Armande Béjart, figlia della sua ex-amante. Ciò causò una profonda amarezza nell’autore, che a teatro portò il suo dramma travestito da commedia; e il pubblico riconobbe facilmente la materia (anche) autobiografica della pièce, di quegli scambi di battute velenosi, intrisi di perfidia, che nel nuovo allestimento restano quanto mai gustosi ed indimenticabili grazie alle performance strepitose degli attori. Ma per quanto resti integra la forza del pensiero di Molière su un secolo ipocrita e affettato, in cui la crisi di valori sembra non avere rimedio, manca purtroppo un preciso riferimento all’attualità nostra o di allora. E non si comprende perché: ancor oggi la "società-macelleria" censura ed emargina, sebbene in modo più contenuto dato che un pubblico lo si trova comunque. Pensiamo a Ciprì e Maresco o allo Scorsese dell’Ultima tentazione di Cristo, o al caso inquietante dei Versetti satanici di Salman Rushdie… Qui, invece, nulla interviene a parlare di noi o di qualcosa a noi noto; tutto si perde nel vago.
In questo senso il "secondo tempo", chiamiamolo così, è stato più convincente del primo, ma non basta: a teatro o si osa fino in fondo o non si osa affatto. Perciò, nella convinzione che "l’alea del rischio" non abbia portato fortuna a questa rilettura del Misantropo, rispediamo al mittente le parole del regista Roberto Guicciardini: "Spesso l’attualizzazione di un testo sfiora il gratuito, quando è ispirato da una moda o da motivazioni didascaliche. Il testo ne esce come anchilosato, costretto ad una veste che non gli è propria".