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Cechov: tre sorelle, un solo destino

Ha convinto e commosso la versione di Maurizio Panici del dramma di Cechov in scena all'Auditorium di Trento.

A guardarle e sentirle parlare capiamo subito quanto sono diverse. Olga, così misurata, un’esistenza scandita da impegni e scadenze, senza mai perdere l’autocontrollo. Irina, innamorata della vita, del lavoro, fresca come un fiore che impiega così poco per appassire. E infine Maša, la più complicata, la più indecifrabile, sempre in bilico. Eppure una cosa le unisce, a parte il sangue: le tre sorelle vanno incontro allo stesso destino; nei loro occhi scorgiamo costellazioni di sogni e nessun futuro. E’ il dramma di ogni donna, di ogni uomo, che Cechov ha saputo dipingere sulla tela del teatro con affetto e maestria. Lui amava i suoi personaggi, così come amava le persone che incontrava per strada e lo ispiravano coi loro piccoli gesti, il loro fardello di speranze e di dolore. Ecco perché la versione del regista Maurizio Panici, andata in scena all’auditorium, ci ha convinti e commossi. Panici ha lo stesso rispetto che aveva Cechov, sa dove osare e quando fermarsi; e soprattutto cosa dire o non dire, perché il non detto ha la forza dell’oblio e del mistero.

Pamela Villoresi.

Le tre sorelle, Cebutykin, Tuzenbach… tutti temono di scomparire, di non lasciare traccia, di essere vissuti invano oltre che infelici. E il regista ne ha reso l’angoscia andando oltre le singole battute. Fin dall’inizio la scena è dominata da una contraffatta foto d’epoca, che ritrae la compagnia in posa come si faceva una volta: facce serie, corpi innaturalmente composti. Poi, quando il sipario si abbassa per l’ultima volta e tutti ci aspettiamo il consueto inchino degli attori, il bianco e nero acquista colore, la gigantografia si riduce a grandezza naturale ma è lì, viva, davanti a noi. In una cornice ideale, l’intera compagnia ha ricomposto fisicamente quell’immagine, quasi uscendo dal grigiore della storia.

Il tempo è uno dei temi dominanti e ricorre, in modo più o meno nascosto, nel corso di tutto il dramma. Un domani migliore ci attende, magari fra 200 anni, ma il mondo presente è incapace di cambiare e impedisce di farlo a chiunque lo vive. Irina, e con lei molti altri, vivono per il sogno di una Mosca da raggiungere, di un posto che non li uccida lentamente e li dissolva. Un’illusione: tutto si consuma tra le pareti di una casa e una città di provincia, tra invidie, duelli, frustrazioni. La felicità è un attimo, non esiste per durare; prima o poi ci si sveglia. E ciò che si ha davanti è una scena sobria, poi spoglia e infine desolata. Niente sogni, niente vita, niente mobili; solo due sottili colonne neoclassiche che paiono ancora più fragili e insignificanti nel vuoto che le circonda. Lo scenografo Aldo Buti ci ha fatto vedere il nulla.

"I figli saranno come i padri: altrettanto meschini, altrettanto cadaveri" è una frase che ben riassume il primo volto dei personaggi di Cechov, quello votato alla rassegnazione. Chi non lavora o non sceglie è un inetto inadatto alla vita, che non sa dare un senso ai suoi giorni. Ma l’uomo ha bisogno di risposte e soprattutto di altri perché da domandare. Ed emerge così l’altro volto, quello di chi lotta anche se sarà immancabilmente sconfitto. Il vecchio medico militare Cebutykin ha dimenticato il suo mestiere, uccide invece che salvare i suoi pazienti; eppure decide di lasciare la città, di ricominciare. Irina, stanca di essere servita e riverita, inizia a lavorare; e quando le giornate da telegrafista si rivelano tutt’altro che appaganti, parte per Mosca da sola, nonostante la morte in duello del barone Tuzenbach, che avrebbe dovuto sposare. Lo stesso barone, del resto, accetta di morire per Irina, una donna che non lo ama.

Colpisce, in quest’allestimento, il lavoro di cesello nella psicologia dei personaggi, di cui scopriamo a poco a poco l’intima essenza, ciò che li rende unici eppure così simili a noi. Si tratta, naturalmente, di un pregio racchiuso in nuce nello sguardo acuto di Cechov. È innegabile, però, che senza una compagnia d’attori di prim’ordine tale merito sarebbe andato perso. Ciascuno sostiene la sua parte senza incertezze, senza smagliature, solo a tratti lasciandosi distogliere da una dizione fin troppo precisa.

Valeria Ciangottini.

Pamela Villoresi è una splendida Maša Prozorov, combattuta, sull’orlo del precipizio, dura ma delicata. Valeria Ciangottini, invece, rende alla perfezione il carattere maturo e equilibrato di Olga, non per questo meno triste; mentre la Irina di Silvia Budri ha la freschezza di una ragazzina incline ai facili entusiasmi. Fra le donne, tuttavia, spicca anche la Nataša isterica, maniacale e compulsiva di Antonella Attili, bravissima nel rendere un personaggio complesso che preordina la vita altrui e non ha alcun controllo sulla propria. Tra i personaggi maschili si distinguono soprattutto Veršinin (Manrico Gammarota) e Cebutykin (Renato Campese), ricchi di sfumature che li rendono quanto mai "autentici" e interessanti. Buone le prove di Sergio Basile (Tuzenbach) e Sandro Querci (Solënij); anche Panici è a suo agio nei panni di Kulygin, ma meno che in quelli di regista. Unica eccezione Fabio Bussotti, il cui Andrej Prozorov non ha del tutto convinto: giustamente senza midollo, ma forse eccessivamente fiacco. Ottimi al contrario, nonostante fossero figure quasi di contorno, i servi Ferapont (Giorgio Barlotti) e Anfisa (Lucia Ricalzone), che - lei specialmente - hanno evitato di scadere nella macchietta per risultare più graditi al pubblico.

Ma in queste "Tre sorelle" anche la scena è un personaggio, un po’ come il paesaggio del Manzoni. E come tale, dunque, lo tratteremo. Lo spazio è giocato sulla perfetta simmetria e le pareti in trasparenza, così che ogni ambiente, oggetto, corpo sia sempre visibile. Inoltre, l’andamento speculare dell’insieme non concede vie di fuga, come se già lì fosse impresso il destino ineluttabile di uomini e donne. La scena, in qualche modo decide, determina, impone; ma nello stesso tempo descrive ciò che si agita in chi la occupa, quel vuoto che si scava nell’anima come nelle pareti. Sembra dirci che, nonostante tutto, "l’umanità è alla ricerca di qualcosa… e qualcosa di certo troverà".

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