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QT n. 1, 10 gennaio 2004 Monitor: Arte

La montagna, senza folklore

La grande mostra (oltre 400 opere esposte) del Mart sulla montagna e le sue interpretazioni artistiche. Semplice sfondo, soggetto naturalistico, fulcro della poetica del sublime e fonte di sperdimento: dal 1400 al 2003 l'evoluzione del rapporto tra uomo/artista e montagna/natura.

Si può supporre che un primo problema, nel progettare una mostra sulla montagna, fosse l’uso
e l’abuso che se ne fa, come realtà e come concetto, in un territorio come il nostro. Occorreva liberarla da consuetudine, banalità e retorica. Lungamente incubata (se ne parla da più di dieci anni), accuratamente preparata, questa mostra del Mart (aperta fino al 18 aprile) non delude.

Francis Towne (1739-1816) "Elterwater".

Anche l’ampio periodo che si è voluto documentare (la prima opera esposta data alla fine del XIV secolo, l’ultima al 2003) esponeva non solo alla difficoltà pratica di ottenere le opere, ma anche al rischio di una dilatazione dispersiva. Le curatrici - Gabriella Belli, Anna Ottani Cavina, Paola Giacomoni - hanno invece prima identificato e poi applicato una linea interpretativa che emerge con chiarezza dalla scelta delle opere e dal modo in cui sono raggruppate ed esposte. Di questa mostra colpisce, infatti, anche quello che non c’è. Non c’è una certa pittura di genere, manca tutta l’elegia più o meno edulcorata della montagna antropizzata, le scene pastorali, gli idilli e i tramonti, le confortevoli vedute di paesini e fienili. Niente folclore né localismo.

Emerge invece come punto di vista privilegiato quello che vede la montagna nel suo valore mitico e conoscitivo, un approccio se vogliamo filosofico, che vuole mostrare come la rappresentazione di questo tema evolva dallo scenario puramente simbolico e mentale della pittura sacra medioevale verso forme via via più influenzate dal progredire dell’atteggiamento scientifico, del bisogno di osservare il mondo per quello che appare e conoscerlo per quello che è. La montagna dunque come fulcro di una cosmologia, risultato di enormi sconvolgimenti della crosta terrestre, deposito e scrigno di elementi primari.

Ci si accorgerà, andando avanti in questo percorso, che l’avanzare dello spirito di osservazione scientifica, pur influenzando in modo sostanziale il modo di vedere degli artisti, non toglierà ai loro occhi il fascino misterioso, l’insondabile capacità attrattiva della montagna. Il sentimento del sublime, che può a buon diritto essere considerato il vero fulcro interpretativo di questa esposizione, non solo convive ma viene in una certa misura esaltato, in taluni autori - viene subito in mente l’inglese John Ruskin - dalla curiosità scientifica.

Il punto di attacco di questa storia non è, dunque, casuale: si trattava di esemplificare con una tavola emblematica ("San Girolamo e il leone" di maestro veneto-bizantino) qual è l’orizzonte culturale di partenza in cui si colloca la visione della montagna ancora nel tardo medioevo: puro scenario dell’apparizione, dell’ascetismo, luogo scelto dagli eremiti per la sua inospitalità, in ogni caso escluso dall’esperienza quotidiana e quindi dall’osservazione diretta e dettagliata (viene anche in mente, per confronto, l’abbondanza di particolari sulla vita medievale contadina negli affreschi di Torre Aquila, a Trento, che si ferma sempre sulla soglia dei monti). Tutto ciò è in qualche modo in linea con l’idea propria della tradizione religiosa ebraica e greca, della cima del monte come luogo di incontro col divino, o addirittura come residenza degli dei. Un’idea del sacro che, a guardar bene, sotto altre forme riuscirà a sopravvivere, come si accennava, al progresso del sapere, trasformandosi in una sorta di misticismo privo di codici religiosi, e che attiene alla capacità del grande spettacolo della natura di suscitare uno smarrimento, ma anche di mettere in moto momenti di conoscenza di sé.

Il cambiamento della visione, nel passo successivo, è così netto da apparire rivoluzionario. Ci troviamo davanti a tre piccoli gioielli di Albrecht Dürer, dipinti intorno al 1495, in quello che è ormai il più schietto spirito umanistico. "Trento vista da Nord" è un acquerello famoso, ma esposto per la prima volta in Italia (prestito della Kunsthalle di Brema), stupefacente connubio tra attenta osservazione del reale (al punto che può valere come testimonianza di una topografia ormai trasformata dallo spostamento del fiume) e personalità dello sguardo, qualcosa che tanto rispetta i dati della percezione quanto risponde a una "visione pensata", come osserva Anna Ottani Cavina. La grande novità è il protagonismo del paesaggio, una conquista che ha fatto parlare di quest’opera come di uno dei primi esempi di paesaggistica moderna. Esempio che non verrà nemmeno pienamente raccolto - Dürer stesso lo realizzò come appunto di viaggio, in una sorta di livello creativo intimo non destinato al "normale" fruitore - ancora per molto tempo: fino a quando si comprenderà meglio che la natura può non essere solo il fondale o il corredo di scene narrative (sacre o profane), ma nutrire in quanto tale e con pienezza le esigenze di uno sguardo pittorico.

La mostra indica qual è il nuovo clima culturale cui attinge la visione di Dürer: è lo spirito di osservazione, il nascente pensiero scientifico, quello documentato qui dal "Trattato della pittura" di Leonardo (manoscritto del suo allievo prediletto Francesco Melzi), affiancato dai risultati di altri studi pre-galileiani intorno all’origine dei monti e dei vulcani.

Gustav Bechler, "Silenzio invernale" (1910).

Ma la dimensione narrativa o addirittura fantastica e visionaria perdurerà, come si diceva, in una convivenza fra elemento naturale e umano, come vediamo nelle opere dei fiamminghi Met de Bles (memore di Bosch), Joachim Patinir, Paul Bril, dove tuttavia lo spettacolo di monti e valli si apre spazi via via prevalenti della visione.

La mostra disegna, tratto per tratto, uno sviluppo storico dell’approccio alla montagna da parte dei pittori europei (e più oltre americani), ma non lo fa attraverso un "continuo" uniforme: alterna invece "stanze" dedicate a grandi personalità - dopo Dürer verranno Friedrich, Ruskin, Cézanne - ad altre che focalizzano lo spirito d’un epoca (le svolte scientifiche, culturali, artistiche: ce n’è una tutta per gli appunti, anche acquerellati, del viaggio di Goethe in Italia), a stanze "tematiche" (i vulcani, i ghiacciai), ad altre ancora "nazionali" (gli inglesi, i norvegesi, gli americani, gli italiani). E ciò rende il percorso gradevolmente accidentato, movimentato, produttore di stimoli e confronti.

La poetica del sublime, che si afferma pienamente nella seconda metà del ‘700, ma sviluppa la sua influenza anche oltre gli autori romantici, costituisce un fulcro imprescindibile di questa storia, e ci sembra che la mostra sia coerentemente disegnata in funzione di questa centralità. Si potevano fare scelte diverse (e "dosaggi" diversi), ma il punto di vista ci pare molto condivisibile (proprio per questo, avremmo scelto una diversa immagine per la copertina del catalogo, che non ci sembra riflettere appieno, con quel tocco di antropizzazione religiosa denotato dalla campana, la linea di fondo della mostra).

Anish Kapoor, "Senza titolo" (1994).

Ad introdurci nella poetica del sublime ecco tutta una serie di dipinti, prevalentemente acquerelli, dei pittori-viaggiatori inglesi: Cozens, il grande Turner, Wright of Derby, Towne (tutto da scoprire). Sono in tutto spettacoli della natura, ma profondamente interiorizzati, che suscitano come è stato detto una "vertigine dell’infinito" e ci pongono a contatto col mistero dell’Universo. "Secondo la filosofia romantica della natura - ci ricordano le curatrici - l’uomo può conoscere il divino nella natura visibile a patto però che il divino già abiti il suo mondo interiore". E ciò trova conferma sia nelle opere di Caspar David Friedrich, del quale sono esposte non le immagini divenute icona di questo maestro del romanticismo ma alcune visioni di sperdimento (qui davvero siamo prossimi al tenore emotivo dell’Infinito leopardiano) nell’intatto scenario di monti, nuvole, nebbie; sia nella sala dedicata a John Ruskin, di grande interesse non solo perché ci fa conoscere un raffinatissimo pittore di vette ma perché in lui convivono in modo esemplare la sensibilità romantica e lo spirito scientifico, senza che l’una sia d’intralcio all’altro: una dedizione all’immagine del creato che fa pensare a una forma laica di contemplazione.

Nel corso dell’800 si afferma il positivismo e il suo corrispettivo in arte lo troviamo nel diffondersi della rappresentazione realistica (Flandrin, Ciardi e vari altri) e poi della pittura di genere di montagna, della quale ultima ci si limita qui a proporre, a mo’ di esempio, un’opera di Charles Giron.

Tutte le scienze analitiche, annota Annie-Paule Quinsac, avevano acuito nei pittori lo sguardo sul mondo visibile, "ma lo avevano anche banalizzato". Ed è da lì che partirà il tentativo dei simbolisti di "ridare alla montagna un carattere sacro", carattere che, come si è visto, non aveva cessato di esistere finché agiva la poetica del sublime. I simbolisti sono una reazione alla banalizzazione dell’approccio puramente descrittivo, tecnico, ed anche alle prime palesi iniziative predatorie alla montagna. E’ in quest’ambito che troviamo alcune belle opere dei divisionisti italiani, Segantini, Morbelli, Longoni e altri, che sono nel loro insieme un inno alla luce, all’aria, allo spazio, per arrivare al Cézanne dell’Hermitage di San Pietroburgo, affiancato da preziosi acquerelli, e alle sintesi sempre più smaterializzate e mentali di Nolde, Moser, Hodler, su fino all’espressionismo di Munch. Kandinsky è ormai, sostanzialmente se non cronologicamente, alla soglia del contemporaneo.

Ormai ci siamo resi conto che la mostra, attraverso l’indagine su un unico grande tema, la montagna, e su un rapporto scelto come privilegiato, quello tra scienza e arte, ci dipana una storia della visione e una linea di evoluzione del pensiero artistico occidentale nel suo insieme.

Nell’ultima sezione, l’arte dal secondo dopoguerra fino ad oggi, si esprime il senso diffuso di una disintegrazione, quando non il timore di una perdita irreversibile di contatto con la natura. Ma anche qui, soprattutto tra i più giovani, vediamo emergere una dialettica che avevamo già visto in azione in passato senza questa disillusione, un oscillare tra lo sguardo freddo, tecnologico sulla montagna e sulla perdita della sua verginità e il bisogno di trarne ancora alimento contro la banalità.