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QT n. 1, 10 gennaio 2004 Servizi

L’avventurosa Ludmila

Da insegnante di francese in Moldavia a badante in Italia. Il racconto di una coraggiosa emigrazione

La notte di Capodanno Ludmila l’ha trascorsa assistendo un’anziana signora ("la nonna" - la chiama), come del resto le succede tutte le notti, a settimane alterne, da che ha trovato questo impiego. Poi lavora anche di giorno, come colf, presso altre due famiglie. Ludmila viene dalla città di Orhei, in Moldavia, e non è una disperata costretta ad emigrare dalla miseria. Nel suo paese insegnava francese in un liceo, mentre suo marito era impiegato. Una figlia, laureata in medicina, potrebbe prossimamente raggiungere la madre per fare il suo stesso lavoro; un altro figlio, infine, è ancora studente in Moldavia.

Soprattutto fra gli immigrati dall’Est europeo, situazioni del genere sono frequenti: gli sconvolgimenti politici e le relative ricadute economiche hanno prodotto, soprattutto fra i dipendenti a reddito fisso, un degrado del tenore di vita al quale i più coraggiosi reagiscono con scelte che a noi appaiono inconcepibili, come l’andare alla ventura in un paese straniero. Ludmila finge di stupirsi di questo nostro stupore, ma in realtà è consapevole e orgogliosa del proprio coraggio: "Una volta un amico mi disse: ‘Noi che siamo partiti siamo i più forti, quelli disposti a lottare perché non ci rassegniamo. Non siamo noi i poveri: i poveri sono quelli rimasti’".

Ma lasciamo che sia lei a raccontare: Ludmila si fa capire benissimo e parla svelta, fermandosi ogni tanto in cerca della parola esatta; se proprio non le viene, traduce mentalmente dal moldavo (o dal russo) in francese, sperando che in italiano si dica più o meno così, e alla fine ci si intende sempre: "Praticamente è capitato tutto in una notte ed è stato uno shock per tutto il popolo, che capiva ben poco di quanto accadeva. Le cose sono cambiate completamente, in peggio, dall’oggi al domani. Era cominciato tutto con la perestroika di Gorbaciov, con l’introduzione della democrazia e delle riforme. Un’ottima cosa, solo che è successa troppo in fretta. E’ come se tu hai un bel prato e all’improvviso ci fai entrare una mandria di mucche affamate: non si limitano a brucare l’erba, distruggono il prato.

Il primo cambiamento ha riguardato il denaro. E’ stato il caos. Sparito il rublo, non esisteva ancora una nuova moneta: gli stipendi erano in ‘buoni’, e con questi buoni si acquistavano le merci; si faceva fatica a capirne il valore, ma era chiaro che c’era un’inflazione spaventosa. Le botteghe, comunque, erano mezze vuote: sapone, patate, zucchero, farina, mobili... non si trovavano quasi più. Dunque, c’era qualcuno che nascondeva i prodotti, probabilmente per far aumentare i prezzi. Sono state reintrodotte le tessere per limitare gli acquisti e naturalmente c’era la borsa nera.

Poi la questione della lingua: il russo e il moldavo (che praticamente è uguale al rumeno) erano le due lingue ufficiali usate correntemente nel paese. Il russo serviva per capirsi fra gli abitanti delle varie repubbliche sovietiche, ma era anche la lingua usata nelle scuole frequentate da certe minoranze linguistiche. Io, ad esempio, sono di etnia ucraina ed ho frequentato la scuola russa. Ebbene, i nazionalisti - soprattutto intellettuali - hanno preteso che il russo fosse declassato: non più lingua ufficiale, meno scuole in quella lingua, e sostituzione dell’alfabeto latino a quello cirillico per scrivere il moldavo, perché l’alfabeto cirillico era stato imposto dai russi quando, nel 1940, strapparono una parte della Moldavia alla Romania (che era alleata dei tedeschi) e ne fecero una repubblica sovietica. Si può immaginare la confusione che questa "riforma" ha provocato, nelle scuole e non solo. A parlare il russo, c’era da provare qualche imbarazzo, quasi che questo significasse che non eri un buon patriota; questo almeno fino a qualche tempo fa, poi sono tornati al governo i comunisti e la situazione è cambiata di nuovo...

Prima di occuparsi di queste cose, sarebbe stato importante pensare alla situazione sociale: dagli stipendi con cui si faticava a vivere agli ospedali non più gratuiti: tutto un sistema che ha spinto tante persone come me a lasciare il paese".

Nel tuo caso come è nata la decisione di emigrare, e come l’hai messa in pratica?

"Ho fatto tutto da me. Pensavo a quando mia figlia si sarebbe sposata, e volevo cambiar casa, lì stavamo stretti. Così ho messo un annuncio per venderla e nel giro di un paio di giorni ho trovato dei compratori: una coppia che aveva lavorato dieci anni in Grecia, con la quale siamo diventati amici. Poi abbiamo comprato la casa, ma c’erano anche da fare dei lavori, e con i nostri stipendi non ce l’avremmo fatta. A quel punto ho deciso di emigrare; con qualche timore, perché fin allora mi ero sempre molto appoggiata a mio marito, era lui che risolveva i problemi di famiglia. Allora non sapevo chi ero, com’ero, se ce l’avrei fatta, se avrei avuto il coraggio necessario per affrontare quell’esperienza. 

Ci ho provato: ho preso un anno di aspettativa non pagata dalla scuola e sono partita per la Grecia. In modo avventuroso, perché con quel paese la Moldavia non ha relazioni diplomatiche e quindi non potevo avere il visto. Ci ho messo una settimana da Orhei ad Atene. Sono arrivata in macchina fino in Bulgaria; e lì - eravamo una dozzina di persone - abbiamo aspettato in un motel che venissero a prenderci. Siamo poi partiti su tre macchine: io ero nella terza, che ad un certo punto ha bucato una gomma. L’autista ha cambiato la ruota, ma eravamo rimasti indietro, e solo la prima macchina conosceva il tragitto e il luogo del successivo appuntamento. Nessuno aveva il cellulare per avvisare e così abbiamo aspettato tre giorni che passasse un altro convoglio del genere. Siamo quindi ripartiti su un furgone, che nel bel mezzo di una foresta, di notte, si è fermato; ci han detto che poteva esserci un controllo della polizia, dovevamo scendere e allontanarci. Ci siamo dispersi in questi boschi, mentre il furgone tornava indietro, con le nostre valigie. Abbiamo trascorso la notte nei boschi; l’indomani abbiamo continuato a piedi, su questa montagna boscosa, finché alle 6 di mattina del giorno dopo, con un gran freddo, abbiamo attraversato la frontiera con la Grecia e poi abbiamo proseguito in camion fin quasi a Salonicco. Da lì ci hanno portati ad Atene. Era la fine di settembre del ’99.

Possiamo dire di essere stati fortunati, di essere capitati con delle persone oneste: di solito il pagamento avviene anticipatamente e certuni vengono abbandonati lungo la strada, mentre noi abbiamo pagato all’arrivo in Grecia.

Il lavoro l’ho trovato dopo 3-4 giorni, presso una famiglia molto simpatica, dove mi trattavano come un’amica; lì ho lavorato quasi un anno, occupandomi di due bambini. Poi, fra la nostalgia che provavo e le insistenze di mio marito, ho deciso di tornare a casa.
Del resto, avevo raggiunto lo scopo di mettere da parte un po’ di soldi. Ho ripreso a insegnare, ma dopo sei mesi, risistemata la casa nuova, i soldi erano finiti e io volevo ripartire; mio marito non era tanto d’accordo, ma a forza di insistere, in qualche modo l’ho convinto. Volevo tornare in Grecia, dalla stessa famiglia, ma per ottenere il visto (la Grecia intanto aveva liberalizzato gli ingressi) ci volevano un paio di mesi, e la signora aveva bisogno di qualcuno subito. Così, con un visto turistico, sono venuta in Italia insieme con un’amica che aveva già il marito emigrato qui: se le cose mi andavano male, sarei ripartita per la Grecia. Invece ho trovato subito lavoro e l’Italia mi piaceva: qui la gente è più allegra, più alla mano dei greci e poi mi piace molto la lingua, la cultura italiana, fino alle canzoni che in Moldavia ascoltiamo in televisione. Anche la polizia è più gentile di quella greca.

Ormai sono in Italia da un anno e mezzo, e quasi sempre come "regolare": fra la scadenza del visto e la sanatoria ho avuto solo un paio di settimane da clandestina... Per il domani non ho ancora le idee chiare; ma comincio a pensare che il futuro della mia famiglia potrebbe essere in Italia. Si vedrà.

Questa esperienza è stata importante anche nei rapporti con mio marito. Lui si è accorto che sono cambiata, perché ho dovuto vivere da sola, decidere per conto mio, farcela con le mie forze. Mi ha detto: ‘Non so se faccio bene a dirtelo, ma sono contento di vederti con una personalità così forte, indipendente. Anche se questo mi fa un po’ paura...’"

La conversazione finisce qui; Ludmila non parla delle cattiverie, delle piccole e grandi ingiustizie che pure ha dovuto subire (del tipo: "Vuoi un contratto regolare? Va bene, però ti pago di meno"). Non ama le lamentazioni, è ottimista; e poi ormai è tardi e deve prendere un treno per tornare a casa, forse a festeggiare l’anno nuovo, con dodici ore di ritardo, in compagnia delle numerose amiche moldave, alcune delle quali provenienti anch’esse da Orhei. Nel pomeriggio, poi, riprenderà il treno per tornare dalla sua "nonna" ed assisterla fino a domattina.