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Una satira da Nobel

Esilarante spesso, farraginoso talora, L'anomalo bicefalo di Dario Fo evidenzia sia il genio del nostro premio Nobel, sia la difficoltà di fare satira politica su una realtà già di suo grottesca.

Palameeting stracolmo a Riva del Garda, dopo la seconda tornata di vendita dei residui trecento biglietti, per vedere ed applaudire l’ultima fatica di Dario Fo e Franca Rame. La rappresentazione è stata sostenuta, a Riva come in tutti gli altri luoghi toccati dalla tournée, da un consenso unanime e quasi plebiscitario, che è davvero impressionante e meriterebbe un approfondimento. Lo spettacolo è volutamente non ultimato perché, come di consueto nella pratica teatrale di Fo, anche questo lavoro è sottoposto alla critica del pubblico e all’accoglimento in tempo reale delle ultime novità della cronaca politica. Così, l’edizione da noi vista è aggiornata al caso Parmalat e al contenzioso con Marcello Dell’Utri.

L’urgenza di denunciare l’attuale anomalia della situazione politica italiana, incarnata dalla figura di Berlusconi, costituisce la ratio dello spettacolo. L’intento è dichiarato, nel prologo, dallo stesso Fo, che entra a scena aperta come nelle tragedie antiche, accolto da un diluvio di applausi. Il fondale è un dipinto in stile quattrocentesco, opera dello stesso attore, mentre la scena, che gli si para davanti simula uno studio televisivo ultramoderno, dove un regista un po’ picchiatello, interpretato da Fo, vuole girare un film proprio sull’irresistibile ascesa del Nostro. Per questa ragione ha ingaggiato un’attrice, Franca Rame, che faccia la parte di Veronica Lario, moglie di Berlusconi. Fin da subito, Veronica si mostra così scettica sulle qualità di quell’uomo che vedendola a seno nudo in una rappresentazione teatrale s’invaghì di lei, da regalargli l’epiteto di "bugiardo patologico". Della sua augusta figura vengono ricordate ironicamente la scelta dell’educazione steineriana per i propri figli e l’intervista sulla guerra rilasciata a Micromega.

Proseguendo, il regista narra la trama del papocchio: in un summit tra Putin e Berlusconi i due rimangono vittime di un attentato che uccide Putin e per poco non fa fuori lo stesso Berlusconi, ma i chirurghi russi riescono a rabberciare un cervello unico con i frammenti del defunto russo e del Nostro, a cui verrà prontamente trapiantato. L’espediente dà all’intreccio un notevole dinamismo comico con gags e piroette, dato che il Nostro risorge sì, ma confuso e smemorato a tal punto che, nelle situazioni meno opportune e imprevedibili, blatera in un verboso grammelot russo-italico, sbandierando anche i retroscena ceceni. Questo è uno dei tre piani che sostiene la movimentata macchina drammaturgica.

Il secondo è relativo alla trasformazione del regista in un Berlusconi-nanerottolo - espediente già usato nel Fanfani rapito – in cui lo spasso e il divertimento sono totali e riscattano quelle fasi dello spettacolo non ancora ben rodate. In questo momento, come in altri abbondantemente profusi nell’arco delle due ore e mezzo, la maestria di Fo fa scintille, pescando generosamente nel ricco bagaglio dell’arte sua: dalla comicità clownesca, derivata dalla tradizione popolare giullaresca, al grammelot, al mistero buffo medievale, alla fabulazione in piena eruzione verbale, fino al cabaret e ai prestiti catturati dall’Ubu Roi. E’ il Dario Fo che ricordavano per l’umorismo paradossale, che ribalta ed illumina i piani della realtà, facendone esplodere le contraddizioni e sconfessando le facili opinioni. Anche la corte del Nostro passa davanti ai nostri occhi come un’allegra quanto volgare brigata: Baget Bozzo è parodiato da rospo viscido e bavoso, Ferrara da obeso sudaticcio. Sonori ceffoni satirici sono generosamente dispensati anche alla sinistra nelle vesti dell’imbelle D’Alema, ridotto ad una marionetta con cui l’attore fa un giro di danza. Il terzo piano, infine, è quello che mostra la vera coppia Fo-Rame che fa il verso a se stessa, rubandosi le battute e lanciandosi recrimonie da vecchia coppia scoppiata.

La macchina teatrale c’è, e in queste parti fila a meraviglia, tuttavia i momenti più deboli sono quelli in cui si perde la tramatura teatrale e la satira diventa pura denuncia, così evidenziando la sua resa di fronte all’esplicito significato politico delle cose. E’ il caso di Berlusconi che, da personaggio teatrale, diventa tout court il gestore dell’esercizio privato in pubblico potere apostrofato in una sequela da capogiro di denunce (società offshore e holdings) e di connivenze con i poteri occulti (mafia, P2), fino alla famigerate leggi: la depenalizzazione del falso in bilancio, la legge Cirami, la Gasparri.

Stessa sorte coglie il senatore Marcello Dell’Utri che, avendo inopinatamente querelato la coppia chiedendo il risarcimento di un milione di euro, si becca il suo personale rosario di nefandezze giudiziarie. Lo spettacolo pone una domanda incalzante che dà conto anche delle sue cadute di tono: "E’ possibile oggi far satira politica?" Per Dario Fo, e di questo anche noi siamo convinti, è sempre più difficile, perché gli stessi protagonisti politici e le loro azioni sono esplicitamente paradossali, in grado di capovolgersi ipso facto nel loro contrario satirico e perfino macchiettistico, ma con l’aggravante di offuscare, con la loro cialtroneria, la vera natura della satira che affonda le radici nella tragedia. E’ là che risiede la sofferenza concreta, frutto di una pessima politica di cui appunto la satira fa sberleffo, come insegna Aristofane, uno dei maestri di Fo. Non è un caso che il primo monologo di Franca Rame è tratto dalla Lisistrata dello stesso commediografo greco. L’altro maestro dichiarato è Molière da cui trae l’idea che "la satira obbliga a ridere e così si spalanca il cervello e si conficcano nella testa i chiodi della ragione".

Umorismo paradossale, satira politica e comicità clownesca sono gli ingredienti di una serata all’insegna del divertimento intelligente che rappresenta l’unico pungolo critico ad un allarmante deterioramento della politica nazionale.

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