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Le ultime imprese della maggioranza

Vicenda Sofri, tutela del risparmio e Senato federale.

Mi dispiace molto per Adriano Sofri, ma forse è un bene che, per responsabilità della maggioranza parlamentare, sia stata affossata la proposta Boato. Non sempre il male vien per nuocere, e forse la grazia invece di allontanarsi diventa ora più vicina.

Adriano Sofri.

Io non sono mai stato un innocentista, e inoltre Sofri non mi è simpatico. Noto questo particolare personale (di per sé insignificante) solo per rafforzare l’argomentazione che segue. La proposta Boato, lodevole nelle intenzioni, a causa di continui compromessi e cedimenti per allargare il consenso era diventato un pasticcio addirittura pericoloso perché apriva un varco ai nostalgici del codice Rocco, i quali vorrebbero ricondurre ogni atto presidenziale alla competenza governativa. Ricordo che secondo la Costituzione (articolo 89) nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti. Ciò attiene agli atti di provenienza governativa o legislativa che devono essere firmati dal Capo dello Stato. Per gli atti che sono di esclusiva prerogativa del Presidente la controfirma del ministro non occorre, oppure è semplicemente un atto dovuto. Il potere di grazia appartiene esclusivamente al Capo dello Stato in forza dell’articolo 87 della Costituzione, che non lo vincola né a pareri né a firme del ministro. E’ solo la consuetudine che ha imposto la controfirma del ministro o addirittura il suo parere favorevole, che è nella realtà un potere di veto nei confronti del Presidente e lo espropria di un suo potere costituzionale.

Ci sono alcuni precedenti che hanno ignorato la consuetudine, senza che nessuno obbiettasse: per esempio la concessione della grazia al partigiano Moranino nel 1965 dal Presidente in carica all’epoca.

Osserva il giurista prof. Andrea Pugiotto che mentre la concessione dell’amnistia e dell’indulto appartiene all’indirizzo politico del Governo (articolo 95 della Costituzione), tanto è vero che il presidente della Repubblica non può concederli senza una legge delega delle Camere (art.79), la concessione della grazia non è riconducibile a una decisione politica del Governo, il che sarebbe gravissimo. Se così è, e io ne sono convinto insieme a molti autorevoli giuristi, la controfirma di un atto cui il Governo è estraneo non può assumere valore di proposta ministeriale vincolante, come vorrebbe quel genio dell’on. Castelli, ma deve ritenersi semplicemente un atto dovuto cui il ministro non può sottrarsi (vedi A. Pugiotto, in Diritto e giustizia, febbraio 2004, n° 8, pag. 10 e sgg.).

Deve concludersi che la grazia è un atto proprio ed esclusivo del Presidente della Repubblica. La proposta Boato, smentendo la formulazione primitiva, disponeva che il decreto di grazia deve essere controfirmato dal Ministro della giustizia, trasformando così in atto duale (Presidente più ministro) ciò che invece è individuale e appartiene esclusivamente al potere del Presidente della Repubblica.

La consuetudine che è invalsa (e che il progetto Boato trasformava in obbligo giuridico) deve essere rovesciata: sia dunque il Capo dello Stato a riappropriarsi della sua prerogativa e imponga al ministro la controfirma come semplice atto dovuto, a costo di aprire un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale. L’attuale inerzia presidenziale si traduce in una resa alla tesi della maggioranza parlamentare.

Io spero che il Presidente Ciampi, il quale ha manifestato in modo pubblico il suo favore alla grazia ad Adriano Sofri, trovi ora il coraggio di farlo in modo ufficiale, riaffermando nei fatti che la grazia è un diritto-dovere del Capo dello Stato e che non sussiste alcun potere di veto da parte del ministro. Se la mia speranza argomentata è fondata, può darsi che Sofri ottenga la libertà, che indubbiamente gli spetta, ancor prima di Pasqua.

Tutela del risparmio o spot elettorale? Il 3 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge, che dovrà passare al Parlamento, col proposito di tutelare meglio il risparmio di fronte ai recenti casi Cirio e Parmalat. Il giurista Enzo Musco, docente di diritto penale presso l’Università di Roma, l’ha definito un "ennesimo tentativo di legislazione simbolica", cioè inutile. In effetti il disegno di legge non riesce a nascondere di essere una vera e propria "norma spettacolo" buona per i gonzi, e con fini chiaramente elettorali. Dai dibattiti che lo hanno preceduto sembrava che la proposta del Governo dovesse in un colpo solo risolvere tutti i problemi: rassicurare risparmiatori e mercati, ridefinire i poteri della Banca d’Italia, comporre i dissidi. Poi sono state tolte dal progetto le cose più importanti, non si capisce perché, tra cui la Super Authority.

Inoltre il disegno di legge non ha il necessario carattere di generalità e astrattezza che dovrebbe caratterizzare ogni precetto normativo. I parametri fissati confinano l’applicabilità della norma ad eventi finanziari davvero catastrofici, quando il risparmio può essere compromesso al di sotto delle soglie previste. Basti riflettere al fatto che, secondo il disegno di legge, si ha un grave nocumento al risparmio "quando abbia riguardato un numero di risparmiatori superiore all’uno per mille della popolazione ISTAT, ovvero sia consistito nella distruzione o riduzione del valore di titoli di entità complessiva superiore all’uno per mille del prodotto interno lordo". Eventi appunto catastrofici, che non riguardano la normalità del risparmio e la sua tutela.

Vi è inoltre un rilievo di costituzionalità relativamente alla punibilità dell’evento non voluto, cioè senza dolo e senza colpa. Il Governo dovrebbe sapere che la responsabilità oggettiva non ha diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento giuridico penale. La Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito con due sentenze del 1988 (la 364 e la 1058) il carattere personale della responsabilità penale, per fatto proprio colpevole.

Ha dunque ragione il prof. Enzo Musco nel ritenere inutile la novatio legis (Diritto e Giustizia, n° 6, 14 febbraio 2004, pag. 8-9).

Il Senato federale. Il federalismo è da anni materia di animata discussione, ma esso è già in parte attuato sul piano legislativo e alcune norme finali sono in approvazione in Parlamento. Si può anzi dire che l’Italia è già uno Stato federale. Ne fa prova il disegno di legge che all’articolo 1 dichiara che la seconda Camera diventa il "Senato federale" della Repubblica; che il Presidente della Repubblica "rappresenta l’unità federale della Repubblica" (art. 19; e infine che Roma diviene "la capitale della Repubblica federale" (art. 29). Se il Ddl. diventerà legge, introdurrà istituti essenziali: una seconda Camera, espressione degli interessi territoriali, e una Corte costituzionale di 19 giudici, di cui 6 eletti dal Senato federale.

La novità maggiore è costituita dal coinvolgimento delle Regioni attraverso il Senato federale nel potere di revisione costituzionale, e nell’approvazione delle leggi che stabiliscono i principi fondamentali nelle materie di potestà legislativa concorrente.

Quanto alle competenze esclusive, in base all’articolo 30 rientra nelle competenze regionali tutto ciò che non è compreso negli elenchi delle materie di competenza esclusiva dello Stato, ovvero delle materie di competenza concorrente di Stato e Regioni.

Il disegno di legge ha determinato numerose reazioni, in particolare l’articolo 31. Esso prevede che il Governo, quando ritenga che una legge regionale pregiudichi l’interesse nazionale, può sottoporre la questione al Senato federale, il quale può con deliberazione presa a maggioranza assoluta, rinviare la legge alla Regione. Se quest’ultima non provvede, il Senato federale può proporre con maggioranza assoluta al Presidente della Repubblica di annullare le legge. Ciò appare ragionevole anche se un po’ macchinoso.

Quanto al modo di elezione del nuovo Senato federale , la questione sembra ancora aperta perché esistono vari modelli di Senato federale. Secondo il prof. Raffaele Bifulco, docente di diritto pubblico all’Università di Napoli, il metodo migliore di formazione della seconda Camera è quello dell’elezione diretta da parte dei cittadini (vedi "Guida al Diritto, il Sole 24 Ore", 14 febbraio 2004, pag. 11 e seg.). Il medesimo autore è molto perplesso invece che l’articolo 4 preveda, per l’eleggibilità a senatore, che il candidato abbia ricoperto o ricopra cariche pubbliche elettive in enti territoriali, locali o regionali, all’interno della Regione, o ivi sia stato eletto senatore o deputato. Ciò appare come un colpo di coda del ceto politico che si chiude in se stesso, impedendo alle forze della società civile regionale di accedere ai vertici (Senato) dell’organizzazione federale (ibidem, pag. 13). Tralascio altre questioni che sono già state trattate su questo giornale.