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QT n. 7, 3 aprile 2004 Servizi

E il bambino, come lo sistemiamo?

C’è aria di crisi nei matrimoni. Ma non solo in Italia. Anzi il nostro Paese ha un tasso d’instabilità coniugale che, sebbene in continua ascesa, è decisamente più contenuto rispetto ad altri paesi europei quali, ad esempio, la Svezia o l’Inghilterra.

E per spiegare questa fragilità c’è chi punta l’indice verso i mutamenti epocali, come la legge sul divorzio (1970), l’emancipazione femminile o la rivoluzione sessuale.

Per chiarirci le idee abbiamo sentito il parere della prof. Chiara Saraceno.

Perché molti matrimoni naufragano?

"Incidono su questo vari fattori: il primo, è che sono cambiate le aspettative nei confronti del matrimonio. Esso non è solo una forma per sistemarsi, anche se i giovani qui in Italia lasciano la casa più per sposarsi che per convivere. Nel matrimonio occorre starci bene: che ci sia rispetto, parità, buona sessualità. Ci sono ancora i matrimoni ‘istituzione’ che tengono, altri che resistono perché ci si lavora tantissimo: quelli negoziali. Il matrimonio oggi, ha più valore in termini soggettivi che istituzionali.

Accanto a questo, c’è il fatto che più donne stanno nel mercato del lavoro ed hanno un’autonomia economica, anche se asimmetrica. Quindi hanno più risorse per uscire da un legame che non funziona. Ecco perché nel Mezzogiorno, ci sono meno unioni che si spezzano: non perché fanno matrimoni più felici, ma perché le donne hanno meno risorse. L’occupazione femminile è un indicatore molto forte dell’instabilità coniugale: le donne che lavorano non producono più conflitti, ma hanno più risorse d’uscita. Anche se può succedere che là dove la donna è occupata, la tradizionale divisione del lavoro è meno accettata e quindi provoca maggiori conflitti se l’altro non si adegua, come risulta dalle mie ricerche fatte con Barbagli.

Di per sé non è male che la gente si separi, ma è male se non ha lavorato abbastanza in un rapporto. Non è che i matrimoni più duraturi del passato apportassero più felicità, anzi nascondevano grandi frustrazioni o violenze. Grandi infelicità personali, che poi erano comunicate ai figli".

L’affido dei figli nella nostra Provincia riflette, grosso modo, la tendenza nazionale. In Trentino, nel 90% dei casi, la madre rimane il principale genitore affidatario.

C’è da dire però, che nelle separazioni consensuali, l’85% dei padri esprime pieno accordo su questa decisione. Fatica invece a decollare l’affido congiunto (1975), che esclude la titolarità della potestà ad un solo genitore e consente la condivisione delle responsabilità genitoriali.

Nella nostra provincia si attesta su una percentuale un po’ inferiore rispetto a quella italiana.

Qui cercheremo di approfondire le dinamiche di relazione che si creano fra genitori e figli dopo la rottura dell’unione coniugale.

Dalle sue ricerche risulta che molti padri, dopo la fase di separazione, allentano i legami d’attaccamento con i figli. Questa latitanza affettiva da cosa dipende?

La prof. Chiara Saraceno, ordinaria di Sociologia della famiglia.

"La deresponsabilizzazione è l’effetto perverso della divisione del lavoro nel matrimonio fondata sui ruoli tradizionali: per gli uomini mantenere, per le donne accudire. E c’è da dire che le donne sono spesso gelose se vedono il marito troppo coinvolto con i figli… Tutto ciò fa sì che i padri sviluppino poche competenze nei confronti della prole. Io non credo che i padri, quando si separano, diventino cattivi o selvaggi. Però è difficilissimo che riescano a mantenere dei rapporti con i figli non avendo la quotidianità. Tant’è che questo riesce difficile anche per le madri non affidatarie.

Le ricerche mostrano però che queste ultime (che sono poche), sono molto più presenti nella vita dei bambini rispetto ai padri non affidatari, ma solo perché hanno sviluppato, in precedenza, delle competenze. E questo è un problema soprattutto culturale, che riguarda il matrimonio, prima che la separazione. Infatti gli uomini di ceti più istruiti, che erano molto presenti con i figli durante la vita matrimoniale, sono quelli poi più coinvolti. Gli uomini, con la fine del matrimonio, sentono un senso di fallimento, di frustrazione per aver subito un torto grave. Ecco allora che l’allontanarsi può essere un modo per non dover riattivare ogni volta questo senso di perdita della propria paternità".

L’affido congiunto potrebbe attenuare il ruolo di "distanza" del padre?

"L’affido congiunto potrebbe risolvere questo problema, però a due condizioni. Prima di tutto esso richiede rapporti di fiducia e stima reciproca fra gli ex partner. In secondo luogo va detto che ‘congiunto’ non vuol dire che i figli vivono un po’ con l’uno e un po’ con l’altro, ma vivono con uno solo dei due genitori; il giudice infatti definisce presso chi il bambino avrà la residenza principale. Il genitore che ha presso di sé il figlio ha quindi tutti gli oneri del bambino e anche le interferenze dell’altro genitore: si mima la convivenza in assenza della convivenza e quindi si ha un’organizzazione familiare continuamente aperta.

Certo, l’affido congiunto è idealmente l’affido migliore (in Francia è la norma), ma non è detto che sia la via più praticabile. Bisogna perciò verificare molto bene le condizioni e soprattutto occorre non fingere che sia congiunto solo perché entrambi i genitori hanno gli stessi diritti, quando invece non hanno le stesse responsabilità."

Oltre alla latitanza affettiva dei padri c’è anche quella economica…

"Infatti, troppo spesso si parla solo dell’affido congiunto e si dimentica che la cosa che andrebbe regolata sono gli assegni di mantenimento. In Italia non c’è nessuno standard, cosa invece che si è fatta negli altri paesi, ove è stata stabilita una percentuale minima sotto la quale il genitore non affidatario non può andare. Da noi, invece, tutto è lasciato alla casualità. Così ogni genitore può dire ‘Io do troppo’. Infatti, nelle nostre ricerche abbiamo visto che gli importi medi non dipendono dal tenore di vita dei genitori, ma dalla generosità casuale, da quello che ha pensato il giudice."