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QT n. 7, 3 aprile 2004 Servizi

Diritto di voto: un ordinamento assurdo

A margine del convegno abbiamo intervistato due relatori, il prof. Vittorio Angiolini, ordinario di Diritto costituzionale a Milano, e l’avvocato Marco Paggi, membro dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione.

Prof. Angiolini, nel suo intervento lei ha citato l’esempio della Svizzera centrale, dove il voto non è legato alla cittadinanza ma alla residenza. Ipotizzare una cosa simile in Italia per le elezioni locali incontrerebbe un problema più politico o più giuridico?

"Il problema sarebbe essenzialmente politico. Fino a che gli stranieri residenti non votano non avranno nessun altro diritto, perché non avranno mai udienza dalle forze politiche e saranno tendenzialmente invece i destinatari dello sfogo demagogico nel momento della crisi. In questo modo potrebbero diventare i nuovi untori, i nuovi capri espiatori delle crisi reali, andando a vantaggio delle forze politiche consolidate".

Ed invece in Italia si concede il voto agli italiani all’estero, mentre si nega a chi in Italia vive e lavora da anni. Non le sembra contraddittorio?

"Sì, sul piano dell’uguaglianza noi abbiamo un ordinamento folle. Ad esempio, un tedesco che risiede a Milano, purché sia in possesso della Carta di soggiorno, che per i comunitari è una mera formalità, può votare. Uno statunitense che non vuole rinunciare alla sua cittadinanza ma che però vive in Italia da vent’anni non lo può fare. Di contro, si permette a Camoranesi, tanto per fare un nome (il calciatore argentino naturalizzato italiano grazie alla sua lontana parentela con un emigrante italiano, n.d.r.) di essere cittadino italiano e di votare subito, nonostante l’Italia non l’abbia mai vista prima. Lui sì, l’extracomunitario lavoratore e residente in Italia da molti più anni no: assurdo".

Dottor Paggi, lei ha citato numerosi casi in cui gli stranieri che vivono e lavorano regolarmente in Italia sono discriminati nel loro esercizio dei diritti sociali e lavorativi, nonostante l’esistenza di leggi che però vengono ignorate. Sarebbe il caso di pensare ad un organo istituzionale che si faccia carico della tutela di questi diritti?

"In Gran Bretagna un organo simile esiste. Tuttavia il problema non è trovare un organo apposito, anzi ciò forse avrebbe l’effetto di scaricare i cittadini italiani dalla responsabilità di confrontarsi con simili problematiche e di cambiare mentalità. Il vero problema è creare una cultura dell’uguaglianza e sconfiggere la paura proprio dell’uguaglianza. Lo stesso sindacato deve fare i conti con la base, che spesso teme questa uguaglianza. Le faccio un esempio: poniamo che un operaio italiano, che si è costruito negli anni una sua identità radicata e che si sente socialmente accettato, si trovi a lavorare fianco a fianco ad un extracomunitario appena arrivato che fa il suo identico lavoro e che giustamente percepisce lo stesso salario ed ha i suoi stessi diritti. A questo punto l’italiano inizierà a percepirsi uguale allo straniero e sentirà il bisogno di distinguersi da lui per paura dell’uguaglianza: evidenziare cioè la differenza per salvaguardare quella che lui crede essere la sua identità. Qui sta il nocciolo del problema, che non può essere delegato solo ad un organo istituzionale, ma è un problema di cui tutti devono farsi carico".