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QT n. 3, marzo 2009 L’intervista

Tossici d’amore

Relazioni capestro, piccole e grandi frustrazioni, disagi emotivi. E tutto per amore. Intervista a Lia Inama, fondatrice del primo gruppo trentino di auto-mutuo-aiuto dedicato alle dipendenze affettive.

Lia Inama, autrice del libro “Liberarsi dal troppo amore”

Per stoici ed epicurei le passioni sono pericolose e vanno imbrigliate, o perfino evitate. Per Jean Paul Sartre le relazioni amorose sono addirittura l’inferno, poiché in esse ciascuno, pur aspirando alla libertà di sé e dell’altro, pretende di avere il controllo sul partner, e ne subisce paradossalmente la stessa sorte. Le forti passioni e l’amore, dunque, possono rivelarsi occasione per annullare o annullarsi, perfino con epiloghi drammatici, come ci ricordano alcuni recenti fatti di cronaca. Quando l’amore può essere eccessivo e distruttivo? Ne abbiamo parlato con Lia Inama, autrice del libro "Liberarsi dal troppo amore" (Edizioni Erickson) e fondatrice del primo gruppo trentino di auto-mutuo-aiuto dedicato alle dipendenze affettive.

Che cos’è il "troppo amore"?

Diciamo prima cosa non è. Amare troppo non significa amare tanto, anzi. Amare troppo significa piuttosto soffocare l’altro, vivere con lui o con lei un rapporto unilaterale e squilibrato; un rapporto in cui non c’è simmetria tra chi dà e chi riceve e nel quale chi sente di dare tutta la sua vita alla relazione pretende che anche l’altro faccia lo stesso. Con il rischio che, se ciò non accade, si scatenino reazioni opposte: dal controllo assoluto, quasi ossessivo, sul partner, alla supina sottomissione remissiva. In entrambi i casi, comunque, l’eccesso d’amore genera dipendenza.

Ma com’è possibile amare troppo?

Se una persona non diventa consapevole che vale per sé e che può anche bastare a se stesso, non riesce a vivere la giusta distanza con l’altro e finisce per identificarsi con lui. L’amante eccessivo perde la sua identità e vive in funzione dell’altro. A quest’ultimo la cosa può anche risultare piacevole, ma a lungo andare c’è il forte rischio che egli stesso sia manipolato e perfino ricattato.

Cosa intende?

Prova a pensare in quante relazioni uno dei due ha sbottato: "Non mi ami abbastanza! Con tutto quello che ho fatto per te…". È un modo per rinfacciare la restituzione di un eccesso d’amore che l’altro non può dare. Non riuscire a bastare a se stessi ostacola la serenità di un rapporto, perché scatena un’asimmetria insopportabile. Ti riporto un caso: ho conosciuto una ragazza di ventisette anni, bella, colta, che viveva però in funzione del suo amore impossibile, un signore di settant’anni. Quella ragazza trascorreva la giornata solo in vista del tardo pomeriggio quando lui passava a trovarla, e la sua autonomia di vita ne era terribilmente compromessa.

Una persona affettivamente dipendente come si comporta poi nelle altre relazioni, ad esempio al lavoro o tra gli amici?

Esiste un fenomeno interessante chiamato aggressività dislocata. Si manifesta spesso in coppie in cui lui non perde occasione di denigrare la compagna con espressioni del tipo "tu non vali niente", "non sai gestire la casa" e via dicendo. Quello stesso uomo, che nel rapporto di coppia svolge il ruolo di oppressore, è magari oppresso sul luogo di lavoro e non trova di meglio che scaricare la sua debolezza e la sua insicurezza sulla partner. La quale, pur patendo la situazione, non può farne a meno. Si genera così una sorta di circolo vizioso, in cui i ruoli di vittima e carnefice si alternano, poiché ognuno ha bisogno dell’altro. È evidente che una relazione simile può anche diventare distruttiva.

Si può arrivare, quindi, ad un rapporto patologico tale da scatenare una reazione incontrollata, perfino violenta?

Può accadere, ma per fortuna non riguarda la maggior parte dei casi. Ci sono molti gradi della dipendenza affettiva. Quelli più seri sono ovviamente di competenza dei medici. Io, con il mio gruppo di auto-mutuo-aiuto, incontro situazioni più gestibili, nelle quali la persona può progressivamente rendersi conto della sua dipendenza e agire per uscirne. Certo, l’attuale società "liquida", per dirla con Bauman, non aiuta, anzi.

Per quale ragione?

In un contesto sociale in cui la stabilità ha lasciato il posto ovunque alla flessibilità, è molto più difficile costruire relazioni stabili. Si ama a termine e questa precarietà di fondo genera un paradosso: da un lato ci si sente più liberi, ma dall’altro si soffre per la mancanza di un legame forte e sicuro. Ti faccio un esempio: una ragazza che viveva male una relazione amorosa a distanza continuava a dirmi: "A me va proprio bene vedermi con lui una volta al mese, perché così mi sento libera. Tuttavia vorrei avere una relazione più forte, che lui fosse più presente". Una situazione contraddittoria che inevitabilmente provocava in lei grande frustrazione e disagio.

In questi anni si parla sempre più dello "stalking", azioni messe in pratica da un partner per tenere sotto controllo l’altro, o addirittura per tormentarlo ossessivamente.

Anche in questo caso bisogna distinguere tra casi patologici più pericolosi e criminali ed altri non patologici. Nel tempo però ho notato una singolare differenza di genere tra le modalità di azione. Mentre i maschi tendono ad assumere comportamenti "classici", come ad esempio il pedinamento della fidanzata o dell’ex fidanzata, le donne preferiscono affidarsi alle nuove tecnologie, come gli sms. Ho saputo di donne che arrivavano a spedire ogni giorno al compagno anche più di trenta messaggini per tenerlo sotto controllo.

Come si può intervenire per uscire dalle dipendenze affettive?

L’esempio del gruppo di auto-mutuo-aiuto è significativo. In tale contesto ognuno incontra altre persone che soffrono di un disagio simile e ne parla. Raccontare le proprie storie e condividerle con altri consente di fare chiarezza dentro di sé e di cominciare a conoscersi. Vedi, spesso alla base delle dipendenze affettive c’è una doppia incapacità: la mancata conoscenza di sé e la difficoltà comunicativa. Non si riesce a vivere una relazione serena perché non ci si conosce dentro e, di conseguenza, non si riesce a comunicare chi si è all’altro. Per questo motivo narrare di sé in gruppo aiuta a superare la dipendenza, perché aiuta prima di tutto a conoscersi e a comunicare.

Molte volte, però, le persone con problemi affettivi cercano rifugio nelle diverse "poste del cuore" delle riviste, con il rischio di scadere in un basso psicologismo da rotocalco che si parla addosso. Un insieme di "alberonate" insomma…

Il rischio c’è, specialmente quando chi - è il caso ad esempio di Raffaele Morelli - rispondendo a queste lettere pretende di avere la soluzione dello specifico caso e ordina al lettore una serie di comportamenti da tenere. Questo atteggiamento, personalmente, lo assumo solo nei confronti di persone che ricevo nel mio studio e con le quali posso costruire un percorso ad hoc. Quando scrivo sui rotocalchi, invece, cerco di dare degli spunti di riflessione, a partire da storie vere, in modo che ciascuno rifletta su quel tema. Gli interventi specifici, insomma, non si fanno sulle riviste.

Quanto incide sui nostri ragazzi l’isteria individuale e collettiva manifestata davanti alle telecamere dai protagonisti dei reality show?

Purtroppo anche i giovani non sono educati alla gestione delle emozioni e, abbandonati a se stessi, si lasciano andare, non trovando di meglio che imitare gli esempi che trovano. Se in famiglia, nel cerchio di conoscenze ristretto e poi in quello più allargato, fino alla televisione, non incontrano esempi di relazioni equilibrate, che possono fare se non imitare la debolezza emotiva dei loro modelli? Paradossalmente cercano equilibrio nello squilibrio.