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QT n. 21, 11 dicembre 2004 Monitor

“Madama Butterfly”: un’icona giapponese

Fedele a Puccini la versione della Butterly del Teatro del Giglio di Lucca. Certo, quel Giappone macchiettistico...

Il Sociale di Trento ha dedicato due serate alla Madama Butterfly nel centenario della prima scaligera (17 febbraio 1904), che si risolse in un clamoroso fiasco. L’edizione vista a Trento costituiva un nuovo allestimento del Teatro del Giglio di Lucca, in coproduzione con i Teatri di Pisa, Livorno, Bolzano, Ravenna, Trento e Rovigo. L’orchestra, diretta da Giuliano Carella, ha voluto seguire fedelmente tutte le indicazioni lasciate da Puccini, in modo da cogliere integralmente gli aspetti dei personaggi che costruiscono via via il dramma.

Il suono orchestrale levigato ed omogeneo faceva apprezzare la tessitura cromatico-impressionista dell’opera, e con particolare nettezza l’ispirazione alle melodie originali giapponesi, documentate dalla raccolta di dischi, Japanese song, posseduta da Puccini.L’orchestrazione forniva la base opportuna agli interpreti, tutti molto compresi nel proprio ruolo canoro e drammaturgico, anche se con livelli notevoli di disparità.

Una punta di disappunto riguarda la messinscena di Eike Gramss, ricreata secondo i canoni iconografici di un Giappone stereotipato e vagamente zen, con fiori e alberi di pesco, case costituite da quinte mobili e cieli trapuntati di stelle.

Tocca a Pinkerton, interpretato da Tito Beltran - tenore di non grande estensione ma di un certo temperamento drammatico, capace di apparire all’occorrenza pragmatico e superficiale, come si conviene al ruolo - e al sensale Goro (Alessandro Casentino) inaugurare il primo atto. Due i momenti emozionanti della serata e musicalmente alti dello spettacolo: lo splendido duetto canoro dei due protagonisti (fine del primo atto), una mirabile sintesi di lirismo emozionale e parola, in cui le voci dei due interpreti si legavano armoniosamente e con naturalezza, restituendo l’unico momento realmente elegiaco dell’amore che la storia conosca. E poi, nel secondo atto (parte prima), la musicalità avvolgente e continua della celebre aria Un bel dì vedremo, interpretata dal soprano Arona Bogdan con un’espressività e senso teatrale degne di una grande interprete. Unico appunto: la caduta nel recitativo nelle note basse invece del cantato. Una Madama Butterfly senza sorprese, soprattutto per l’impianto scenico, ma che ha tuttavia incantato per la magia che la musica ha saputo rinnovare.

La storia s’ispira al dramma teatrale di David Belasco: Puccini, assistendovi a Londra nel 1900, s’innamorò del soggetto, imponendolo all’editore Ricordi. Rispetto al dramma e al racconto da cui a sua volta era tratto, eliminò certe battute di cattivo gusto di Pinkerton e il pessimo inglese parlato da Butterfly, ridusse il materiale, variò la successione dei fatti e cambiò il finale da lieto a tragico.

Dopo il fiasco milanese, Puccini si mise al lavoro insieme ai librettisti, Illica e Giocosa, modificando il complicato secondo atto e dividendolo in due parti, e a Brescia l’opera, presentata il 28 maggio dello stesso anno, ottenne un clamoroso successo, che d’allora ha sempre saldamente mantenuto.

La Madama Butterfly ci conduce nel cuore della poetica pucciniana, nella drammaturgia delle "piccole donne che non sanno che amare e soffrire", e che concepisce il sentimento d’amore così totalizzante da spingere alla morte. Rispetto alla Manon Lescaut (1893), dove già è presente questa concezione dolorosa, qui la morte è già prefigurata nelle prime scene: nell’arroganza di Pinkerton e nel mendace voto d’amore pronunciato all’interno del rito matrimoniale, vissuto come poco più di un gioco .

Butterfly entra nella galleria delle eroine pucciniane con uno statuto del tutto specifico: i due atti sono incentrati unicamente su di lei, nessuno degli altri personaggi ha neanche lontanamente il ruolo di comprimario, tutti sono ridotti al rango di comparse, Pinkerton compreso. E nessun’altra eroina pucciniana le si può accostare, né per centralità musicale e drammaturgica, né per la morte annunciata; le altre condividono con lei l’inesauribile fame d’amore, ma fruiscono di una salvezza ideale garantita loro dalla reciprocità d’amore con il partner. La morte le coglie, o per stenti (Manon Lescaut), o per malattia (Mimì) o per suicidio (Tosca), ma in qualità di donne amate. Malgrado il suicidio, nemmeno Liù della Turandot (1926) si può avvicinare a Butterfly, perché nelle intenzioni di Puccini e dei librettisti, la geisha doveva personificare lo scontro tra due culture, quella americana - dipinta come predatrice e torva nel desiderio di possesso - e quella giapponese, che Butterfly rinnegherà, senza alcuna resistenza, meritando il ripudio dello zio Bonzo.

Il Giappone è presentato in una veste tradizionale, davvero poco apprezzata dalla scrittura operistica. Lo zio Bonzo, custode della tradizione degli avi, è poco più di una macchietta, e tale era anche nell’edizione trentina, interpretato da Enrico Rinaldi; la grande e colorata famiglia della sposa è chiamata spregiativamente da Pinkerton "tribù". Niente di più lontano dall’attuale Giappone supertecnologico, anche se ancora con importanti frange di fedeltà alla tradizione. Certamente dovette concorrere alla scelta del soggetto anche l’ascolto del Tristan und Isolde (1865)di Wagner, effettuato già ai tempi della Tosca (1900) che, a dispetto delle differenze di concezione musicale e filosofica, mette in scena una liebestod, ossia una morte per amore. Al di là della modalità proprie della morte delle due figure femminili, una personale rilettura del capolavoro tardoromantico lo indusse a scegliere la tematica dell’amore sviluppato oltre ogni limiti del sensibile, spingendolo inoltre all’adozione dei leitmotiv ealla suggestiva e personale ripresa del discorso continuo.

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