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QT n. 3, 12 febbraio 2005 L’editoriale

Irak: la guerra e le elezioni

Dal male della guerra irakena sortisce il bene di una pur limitata, ma significativa, prova di democrazia. Ma il giudizio complessivo sulla guerra di Bush non può cambiare.

La verità è che nessuno se l’aspettava. Non se l’aspettava Bush. Sia lui che gli altri fautori della guerra avevano puntato molto sulle elezioni del 30 gennaio. Erano riusciti a convincere Al Sistani, il grande capo religioso sciita, ad assecondare il loro progetto. Una sua buona riuscita poteva essere la base per cominciare a prendere le distanze da un’avventura che sta presentando un conto pesante, in dollari e vite umane.

E tuttavia covavano il timore di un insuccesso. Le condizioni in cui la consultazione stava avvenendo erano tali da far prevedere il peggio. Candidati numerosissimi e clandestini, niente comizi, minacce di morte rivolte a chi sarebbe andato a votare: il rischio di un fallimento era altamente probabile. Per le stesse ragioni i contrari alla guerra tendevano a svalutare la validità della consultazione che si andava svolgendo in queste condizioni, ed a prevedere un fiasco. Ed invece pare che l’affluenza degli elettori sia stata superiore al 50%, persino il 60%. Il che non è un gran che, ma è qualcosa. Le nostre percentuali, all’indomani della liberazione, superavano il 90%, ma eravamo davvero liberi. In Irak, nello stato in cui si trova, il 60% di elettori che vanno a votare costituisce un fatto significativo e sorprendente per tutti. Tanto che con insperato sollievo i favorevoli alla guerra ne hanno tratto una ragione a posteriori per giustificarla (senza guerra non ci sarebbero state le elezioni). E chi era contrario alla guerra, nello smarrimento provocato dall’evento inatteso, hanno finito per dire che i veri resistenti sono quelli che hanno votato, come ha detto Fassino al congresso dei DS, con una semplificazione retorica ad effetto ma piuttosto spericolata. Come quella di chiedersi dove eravamo quando Saddam Hussein perseguitava il suo popolo e cosa abbiamo fatto noi, come sinistra mondiale, per cacciarlo. Non vorrei che la psicosi del gendarme globale, tipica del Presidente degli Stati Uniti, cominci a contagiare anche la sinistra. La via per risolvere i molti problemi del mondo è quella del negoziato e soprattutto della costruzione di un governo mondiale. Via lunga e piena di intralci, ma l’unica possibile se scartiamo la guerra unilaterale e preventiva.

Ma come è potuto accadere che in un paese occupato da forze militari straniere, dilaniato dalla guerra civile fra chi accetta tale occupazione e chi la contrasta, in uno stato di insicurezza generalizzato, con un sedimento di odi e rancori depositato dai mille e mille morti recenti, come è stato possibile che così numerose elettrici ed elettori si siano recati alle urne?

Questa sia pur limitata manifestazione di democrazia è dunque il frutto della guerra?

Il voler ravvisare un rapporto di causalità fra la guerra e l’embrione di democrazia che abbiamo visto il 30 gennaio costituisce una grossolana manipolazione della verità. Post hoc, ergo propter hoc: dopo ciò, quindi a causa di ciò, questo è il primitivo ragionamento che sta alla base di un tale maldestro tentativo di fornire alla guerra una giustificazione. La verità è che la guerra resta un crimine per i morti di entrambe le parti che ha lasciato sul campo, per il terrorismo che ha fomentato, per il caos che ha generato, nel quale guerra civile e criminalità comune imperversano. Gli è che dal male talvolta può venire anche qualche frammento di bene. Non tutti i mali vengono per nuocere, ci insegna l’antica saggezza condensata nei proverbi.

Lo sfasciume provocato dalla guerra ha fatto affiorare le motivazioni più varie al voto: la rivalsa sciita contro i sunniti, l’orgoglio nazionale irakeno che vede nel governo elettivo il presupposto per la partenza delle truppe occupanti, il sincero attaccamento alla democrazia contrapposta al terrorismo, la gradevole sensazione di partecipare per la prima volta ad una cerimonia democratica, l’obbedienza alle pressioni delle forze occupanti e del governo Allawi. Tutto ciò non toglie nulla a cio che di positivo vi è stato nella prova elettorale. Solo ci ammonisce a non ritenere che con essa i problemi siano tutti risolti.

Erano già molti prima della guerra, a cominciare dalla presenza del dittatore. La guerra con il suo strascico di lutti e rancori, di distruzioni, di umiliazioni e di sentimenti di vendetta, li ha moltiplicati ed aggravati.

Non è molto più civile, ed anche più conveniente, il metodo nuovo inaugurato in Medio Oriente dopo la misteriosa morte di Arafat?