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Bioetica: un libro e i dubbi di un insegnante

Vittoria Franco, Bioetica e procreazione assistita. Donzelli, 2005, pp.165, 12,90.

Sarà la malvagità, o l’ignoranza, all’origine del contrasto che ci divide?

I contendenti si lanciano accuse pesanti: di essere dei moderni omicidi (di embrioni), o dei crociati del medioevo (contrari al progresso scientifico). Vittoria Franco invita invece a "mettersi dal punto di vista dell’altro nella ricerca di punti di convergenza". Sono i progressi vertiginosi delle scienze biologiche, della genetica, della medicina riproduttivache ci pongono quesiti etici nuovi. Dobbiamo praticare con impegno, e fiducia, quella che J. Habermas chiama "l’etica della comunicazione": diventare una comunità capace, in un rapporto reciproco ed egualitario, di darsi le regole nuove di cui ha bisogno.

Vittoria Franco è docente di filosofa alla Scuola Normale di Pisa, ed ha seguito al Senato, nel gruppo dei Democratici di Sinistra, il dibattito sulla Legge 40 dedicata alla procreazione medicalmente assistita (Pma). Ha maturato le sue convinzioni quindi, ma le idee di chi pensa in modo diverso, scrive, "sono da prendere tutte sul serio, argomentando al meglio le risposte". Io ho letto il libro con interesse, proverò a darne conto, anche dei dubbi che mi sono rimasti.

Sono importanti le parole della biologia: embrione, clonazione, cellule staminali. Talvolta diventano specialistiche: gameti e zigote, ovocita e oocita, multipotenti e totipotenti. La scuola non ha saputo dare, nemmeno a me laureato, quella competenza scientifica di base necessaria per essere un cittadino consapevole. Ma nemmeno gli scienziati si impegnano a divulgare le conoscenze a un livello adeguato, e i mezzi di comunicazione non li sollecitano a sufficienza.

Vittoria Franco.

E tuttavia, al di sotto della scienza e del diritto, della religione e della politica, la parola chiave a me pare un’altra. Attraversa il libro e, nella sua portata, è una scoperta inattesa. Questa parola è relazione. Un educatore (l’insegnare è il mio mestiere) è un esperto di relazioni: con gli allievi, con i colleghi, fra discipline diverse, fra il corpo e la mente, fra il lavoro e la cultura.

Per molte coppie, una donna, un uomo, scoprirsi sterili è una sofferenza: frustra la "pulsione istintuale a procreare". Può essere facile scegliere di non avere figli: l’essere coppia può già dare senso alla vita. E può dare avvio ad una trattativa d’amore. Si elabora "insieme" un desiderio, un progetto di famiglia nuova, sociale, un nuovo modo di essere genitori: l’adozione, anche internazionale, o l’affidarsi alla tecnica, anche eterologa. Ognuno di questi passaggi comporta scelte difficili. L’affettività si rafforza, diventa più responsabile. Anche con l’embrione, donato, si stabilisce una relazione affettiva. Anche con il donatore, gratuito e sconosciuto. L’etica del dono contraddistingue le relazioni umane.

In questo percorso la coppia soppesa i desideri, le storie vissute, le condizioni reali in cui si elaborano i progetti. Si sperimenta anche il senso del limite. Ci sono, nel saggio di Vittoria Franco, notazioni psicologiche finissime sulle ragioni che spingono certe famiglie all’adozione ed altre alla fecondazione assistita. Sono scelte egualmente legittime, che non possono essere gravate, dall’esterno, con giudizi morali. Il pluralismo etico è questo: riconoscere dignità a scelte diverse, anche dopo che si è definita una cornice giuridica "mite", leggera.

Il senatore Mario Gozzini aveva scritto di sua mano, con sensibilità, nel 1979, la legge sull’aborto. E mi diceva: se fossi medico, farei obiezione di coscienza. Chiedeva rispetto per questa sua posizione. E accettava, concedeva rispetto, auspicava anzi, che altri medici praticassero le interruzioni di gravidanza, perché solo così la legge poteva funzionare, allo scopo di rimuovere una piaga sociale dolorosa. Pluralismo etico è convivere, e interrogarsi reciprocamente, oltre la libertà di coscienza. Non minacciarsi, o separarsi, in ghetti chiusi.

Tutti possiamo, e dobbiamo, capire, anche se certe parole dell’embriologia continueranno ad esserci ostiche. La scienza oggi estende domande che nascono, in "relazione", in ogni coppia che sceglie, responsabilmente, di avere dei figli. Quanti? Quando? Come? E nell’attesa, la salute, la curiosità sul sesso. Poi la nascita, l’allattamento, l’educazione. Sono le domande che ci avvicinano, umane. Nel confronto l’affettività diventa sensibile, tesa talvolta. Il rispetto dell’altro, il senso del limite, ci conducono alle decisioni: il bambino nasce e cresce così.

A questo punto sorge la prima obiezione, a cui Vittoria Franco non dà risposta. La tecnica oggi permette di andare oltre la relazione, di diventare padre e madre, da soli. La possibilità di accedere alla Pma da parte di donne singole è una condizione che Silvia Vegetti Finzi definisce di "autosufficienza generativa", di "narcisismo onnipotente". Quando sono in gioco più individui, soggetto (di scelta) non è però l’individuo ma, appunto, la relazione. Quali saranno le conseguenze di una decisione senza limiti? E’ questo, dell’essere genitore, un diritto di "resistenza", o ci richiama a un dovere di "resa", nei confronti della natura? "Resistenza e Resa", per usare le parole di Dietrich Bonhoeffer, è l’atteggiamento mobile che ci deve guidare.

L’educatore sa l’importanza, nella crescita, delle relazioni, innanzi tutto di quella edipica, la più faticosa. Su questo futuro, antropologico, nella proposta di Vittoria Franco rimane una contraddizione irrisolta. E di difficile soluzione giuridica, perché in Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Finlandia, le singles sono già ammesse alla Pma, anche con seme conservato dopo la morte del coniuge o del convivente.

Il problema generale che sottende tutti gli altri è, quindi, il rapporto fra natura e cultura, fra necessità e scelta, fra limite e libertà. La natura non esiste nella sua purezza, "dalla natura non si può cancellare la storia che essa ha vissuto" - afferma giustamente l’autrice. Nel processo moderno di "civilizzazione" Vittoria Franco sottolinea il peso maggiore acquisito, nel progetto procreativo, dalla decisione individuale rispetto al destino naturale. Con i metodi contraccettivi la sessualità è stata separata dalla procreazione, con le tecniche di fecondazione artificiale la procreazione si può separare dalla sessualità.

Perché però cresce, e dove, la sterilità? La risposta, che però non diviene oggetto di riflessione specifica, è: in Italia, in Europa, nel "mondo industrializzato", per cause che vanno dai fattori ambientali come l’inquinamento, al cambiamento negli stili di vita che riguardano soprattutto la donna. Oltre la nevrosi, questo "sviluppo" rende dunque infeconde le relazioni.

La tecnica, che nei paesi ricchi abbiamo a disposizione, ci promette aiuto, sofisticato. E così crediamo di non dover ripensare allo stile di vita che della sterilità è la causa profonda, che così non viene interrogata né superata. "I corpi sterili rimangono tali, anche se sono indotti a generare attraverso le protesi", scrive Silvia Vegetti Finzi. E’ quasi un "trucco" la tecnica, simile al trucco giuridico del dare un nome europeo al bambino adottato in Asia, per evitargli di subire atti di razzismo. Così però, commenta Miguel Benasayag, permane la sofferenza esistenziale dovuta non al nome, ma proprio al razzismo.

Alla fecondazione assistita ricorrono i paesi ricchi, industrializzati, non solo perché quelli poveri sono arretrati, ma perché noi, moderni, ci siamo spinti troppo oltre nell’aggredire l’ambiente, e nell’adottare relazioni sociali che ci minacciano con la sterilità. La natura, che è l’impulso, il diritto alla maternità, sta entrando in contraddizione con la città moderna in cui la donna è chiamata a vivere. Per la donna fu (relativamente) facile, in nome dell’eguaglianza, integrarsi nella polis rivendicando diritti (al lavoro, alla proprietà, al voto). Sta però perdendo, e noi tutti con lei, quel valore di "differenza" che è la fecondità naturale. E’ la Pma la risposta definitiva al problema insorto, o dobbiamo cercare più a fondo?

Infine c’è il futuro che ci riserva la ricerca scientifica. E’ un "pendio scivoloso", come Vittoria Franco lo chiama, con un’efficace metafora. Ma - risponde - per fare argine, le comunità scientifiche e politiche certo sapranno darsi dei limiti. Uno scienziato come Carlo Flamigni solitamente reagisce risentito a chi manifesta paura: "E’ mille miglia lontana dalle nostre possibilità presenti e future, nonché dalla realtà biologica dell’uomo, quella che viene chiamata (con nostro grande dispetto) l’eugenetica positiva, migliorativa" (l’Unità, 13.1.2005).

E’ però su un articolo di vent’anni fa, di Giovanni Berlinguer, sullo stesso giornale (1.12.1986), che io, e generazioni di miei studenti, ci siamo formati. Difendeva, ovviamente, quello scienziato, la libertà della scienza, ma aggiungeva: "L’inquietudine cresce quando la fecondazione artificiale, e più ancora l’ingegneria genetica, vengono intese come strumenti selettivi per far nascere ‘figli migliori’. Adesso le possibilità di predeterminare alcune qualità (per ora grossolane) si vanno espandendo. E con queste un potere inedito rischia di concentrarsi in poche mani, mentre la linea evolutiva della specie umana può essere deviata. Il sogno dei razzisti, l’eugenica dei nazisti, gli incubi della fantascienza possono avvicinarsi alla realtà... Colpisce inoltre lo squilibrio che esiste (basta contare le colonne di stampa) fra impegno sulla fecondazione assistita e interesse per ridurre la sterilità". L’articolo, titolato "L’inquietante potere di scegliere il sesso", mi inquieta anche oggi.

L’autrice guarda con rispetto alle regole particolarmente restrittive che la Germania si è data, per la storia tragica che quel paese ha vissuto. Ma quell’inquietudine, da cittadini del mondo, io penso che deve diventare la nostra: la paura si può tenere sotto controllo solo se cresce la consapevolezza scientifica, e politica, della frontiera che stiamo superando.

I dilemmi etici si fanno cruciali. Un solo esempio. A Vittoria Franco pare in crescita "la stigmatizzazione etica dell’amniocentesi da quando ad essa si ricorre per verificare che l’embrione non abbia malformazioni. In caso positivo è possibile l’aborto terapeutico".

Paolo Prodi, a conclusione di "Una storia della giustizia", invece nota le "numerose cause che vengono già introdotte negli Usa a tutela dei figli minorati contro i genitori che li hanno messi al mondo senza adeguate precauzioni".

Anche a me è successo, recentemente, di sentire dei signori scandalizzarsi: "Con tutto quello che oggi possiamo sapere sugli embrioni, a quei due è nato un figlio handicappato". Se è questa la società che ci aspetta, io ho il diritto di avere paura.

Di fronte a problemi di questa portata, non è la legge 40 che ci può illuminare, e proteggere. Più "cattolica" perché più "cattiva" verso le donne che soffrono, la definisce lo storico Alberto Melloni. E preoccupa che, in difesa della vita, il cardinale Ruini, a quarant’anni dal Concilio, indichi agli italiani qual è nell’urna il comportamento cattolico "buono". Non sa riconoscere, ancora, che la laicità è un bene per lo Stato e per la Chiesa.

E tuttavia nel Comitato per il "doppio no" sono scritti nomi di scienziati (cito, fra quelli a me noti, Romano Forleo, Stefano Zamagni, Lucetta Scaraffia, Alberto Monticone) che hanno una storia di laicità. Che hanno dato, e daranno ancora, in futuro, contributi importanti alla società italiana.

Dove è stato commesso l’errore?

La storia non finisce con un referendum, in cui io mi vedo trascinato senza volerlo. Dopo l’incomprensione dovremo ristabilire le relazioni.

Su Testimonianze, la rivista fondata da Ernesto Balducci, che io attendo ogni mese, Lucetta Scaraffia e Vittoria Franco scrivono insieme. Diverse, ma capaci, entrambe, da anni, di farmi pensare.