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Sergio Sermidi: verità sensoriali

I capolavori dell’artista mantovano in mostra fino al 1° maggio.

Dopo la personale di Giulio Turcato nel 1998 (il nostro giornale ne dette ampia notizia), il Palazzo della Ragione di Mantova ospita un’altra bellissima mostra dedicata ad un suo cittadino, Sergio Sermidi, classe 1937, che ha speso quarant’anni della sua vita in un lungo voyage di ricerca sulla pittura, fatto di straordinari approdi per altrettante sorprendenti nuove partenze. E dopo i capolavori di questi ultimi anni, si ha l’impressione che il meglio deve ancora venire.

Sergio Sermidi, “Protologico” (2005).

Sempre in bilico come gli argini del suo Mincio tra forza espressiva, irrazionalità e carnalità del gesto, e rigore critico che di volta in volta rivela le verità e le continue sorprese della superficie, queste opere, nelle misure monumentali che le caratterizzano, sembra abbiano trovato il loro posto permanente, visto il dialogo appassionante con l’alta nave che le ospita. Già la partenza informale presenta novità rispetto al panorama di quegli anni: non per sgocciolature ma per "figure strutturalmente compiute... L’unità di base è il tratto-colore" (Francesco Bartoli) che chiede mobilità all’osservatore.

Furono i monocromi dei primi anni ‘70 che gli valsero il premio "Le Arti" per il disegno ex aequo con l’artista trentino Aldo Schmid: ambedue condividevano l’idea che il monocromo, quando riusciva a catturare lo sguardo nei propri abissi, rivelava fasci di intensità cromatica, vibrazioni di luce e colore. Per Sermidi, inoltre, il desiderio più incredibile restava quello di "accecare il colore": l’occhio, costretto a precipitare in uno stato di cecità e smarrimento iniziale, grazie a tramature fittissime, una volta dentro, poteva poi cogliere i sussurri della materia, le risonanze spaziali e la dilatazione cromatica di là da venire.

Il colore va sempre più sfilacciandosi (il capolavoro del 1975 rosso), nebbie si sovrappongono, come nel bellissimo "Correggio" del 1971. Alle cadenze verticali di pioggia e vento dei pulviscoli degli anni ‘70 e ‘80, si succederanno segni di inquietudine -nel quadro "Ciclo androgino" dal reticolo sembrano avanzare figure danzanti - textures slabbrate e una gestualità larga, tesa nell’abbraccio di uno spazio che non basta (nel "Senza titolo" del 1985-90 queste due modalità convivono in straordinario equilibrio).

Di fronte alle opere deli anni 90, dove la felicità esecutiva, la scelta del colore sempre nuova e feconda nello sviluppo e nelle dimensioni, possono valere a commento le parole di Gaston Bachelard quando scrive: "Allora lo spazio si fa deiscente, si apre da tutte le parti: esso va sorpreso in queste aperture, e cioè nella possibilità pura di tutte le forme increate".

Sergio Sermidi.

Nella fornace ardente degli anni recenti, nella continua invenzione di nuovi universi e nuove orbite, nei colori rossi e neri, rossi e bianchi, la fluidità e la rapidità delle traiettorie sulla tela sembrano provenire da quelle regioni preverbali, da quei vuoti antelucani della coscienza in forme che divampano e si consumano nell’ardore del loro stesso stesso fuoco.

Tommaso Landolfi definì l’artista una "creatura tenuta, per sua dannazione, a scoscendersi per l’inferno come a volitare per il paradiso". La pittura di Sermidi è la sua pelle , la sua risata larga, il suo diario, in costante collegamento con il reale trasfigurato nella traccia della sua contingenza.

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