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Il lungo inverno di George W. Bush

Mese difficile l’ultimo per la Casa Bianca, impegnata sul fronte interno in una serie di questioni spinose: la nuova nomina alla Corte Suprema, l’affare Plame e gli scandali DeLay e Frist. Ma andiamo con ordine.

Nemmeno un mese fa, la Corte Suprema iniziava un nuovo capitolo della sua storia con la conferma del candidato di Bush, John Roberts, al titolo di Chief Justice. Roberts succede a William Rehnquist, voluto da Reagan a metà degli anni Ottanta, che aveva riportato a destra il timone del più alto organo giudiziario americano dopo gli anni "di sinistra" di Earl Warren.

Il passato di Roberts non lascia intravedere sconvolgimenti nella linea ideologica della corte. Durante gle audizioni al Senato, la solida fama di conservatore gli ha guadagnato da subito l’appoggio dei senatori repubblicani e la preparazione in questioni costituzionali gli ha permesso di uscire tutto sommato indenne dal fuoco di fila delle domande della parte democratica. Tuttavia, è difficile prevedere fino in fondo l’impatto che potrà avere sul sistema giudiziario: è giovane, 50 anni, conosce la materia, e sa che si troverà a guidare la corte in decisioni scottanti. Ma su questo torneremo.

Harriet Miers.

Diversa invece la storia della seconda nomina di Bush, l’avvocatessa texana Harriet Miers, chiamata a prendere il posto di Sandra Day O’Connor. Questa volta il fuoco di sbarramento delle critiche è venuto principalmente dalle fila dei repubblicani, preoccupati dalla mancanza di comprovato conservatorismo della Miers e dalla sua estraneità dalla pratica di giudice e le questioni costituzionali.

La difesa dell’Amministrazione, pur volenterosa e giocata ai più alti livelli, non è parsa, ad essere generosi, granché efficace. Karl Rove non ha trovato di meglio che ricordarne i legami con la locale chiesa evangelica e il movimento anti-aborto; Bush ha assicurato che la Miers, negli anni alla Casa Bianca come consulente e membro dello staff, ha acquisito notevole pratica nelle questioni di cui la Corte deve dibattere; i membri del Senato che l’hanno intervistata ne hanno sottolineato la gentilezza, eludendo la questione della competenza. Ma questo non è bastato a convincere gli scettici e Bush si è visto costretto ad incassare la sconfitta e ritirare la candidatura.

Dietro la battaglia sulle nomine si gioca, ovviamente, la partita del controllo della Corte Suprema, occasione imperdibile per repubblicani e neo-con di attrarre nella propria sfera uno dei pilastri dell’ordinamento americano.

Due le questioni più o meno apertamente sul tavolo: aborto e poteri presidenziali. Il dibattito sull’aborto riemerge costantemente, mai risolto e in forme talvolta molto violente, all’interno della società americana. Bush e i suoi, coerentemente con la più generale filosofia del "diritto alla vita", ne abolirebbero volentieri la legalità.

La seconda questione riguarda invece il bilanciamento dei poteri nell’ordinamento dello Stato, e, nello specifico, il peso dell’esecutivo e del presidente. Il problema è ovviamente tutt’altro che nuovo, ma ha assunto rilevanza e concretezza particolari nell’America del dopo 11 settembre e del Patriot Act, in cui l’ago della bilancia pende, come raramente è successo prima, verso il presidente ed il suo circolo di consiglieri. Ma mantenere lo status quo indefinitamente senza l’appoggio della Corte Suprema è sempre più difficile. Ecco quindi i vantaggi di una Corte che punta a destra e che, in alcuni suoi membri, è facilmente malleabile.

Ancor più movimentata la questione Plame, con il suo contorno di spie, ricerca di armi di distruzione di massa, l’italianissima falsa intelligence dell’uranio del Niger e giornalisti spregiudicati.

Vediamo i fatti. Siamo all’inizio del 2002. I falchi della Casa Bianca premono per intervenire in Medio Oriente dopo il successo della campagna afghana. Sono i giorni della frenetica ricerca della "pistola fumante", la prova che Saddam si è alleato con Al Qaeda o che, per lo meno, costituisce una reale minaccia. Quanto mai opportunamente, da parte italiana viene prodotto il famoso dossier dell’uranio del Niger che Saddam avrebbe cercato di comprare. Il dossier, come ha rivelato nei giorni scorsi La Repubblica, è raffazzonato e assai poco credibile. La CIA non abbocca e fiuta l’inganno. Ma i neo-con che controllano la Casa Bianca, Cheney e Rumsfeld in prima linea, premono. Il ministro della difesa detta la linea: "L’assenza delle prove non è la prova dell’assenza", delle armi di distruzioni di massa, ovviamente.

L’agenzia è appena uscita dal disastro dell’11 settembre e non può permettersi un altro sbaglio. Prova allora a guadagnare tempo: nel febbraio del 2002 spedisce in Niger Joseph Wilson, ambasciatore in Africa nel periodo di Bush padre e incaricato da Clinton della definizione delle politiche americane in Africa. Wilson non trova nulla. Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Nonostante gli avvertimenti della CIA, nel discorso sullo stato dell’Unione del 2003, Bush include il riferimento all’uranio del Niger e di fatto dichiara guerra a Saddam.

Valerie Plame e Joseph Wilson.

Arriviamo velocemente al 6 luglio 2003, quando sul New York Times esce un articolo di Wilson, "Cosa non ho trovato in Africa", in cui l’ex ambasciatore di fatto accusa l’Amministrazione di aver manipolato le notizie di intelligence per giustificare la sua agenda bellica.

Otto giorni dopo, sul Times, esce un altro editoriale, questa volta a firma del columnist Robert Novak, in cui si rivela che Valerie Plame, moglie di Wilson, è un’agente operativa della CIA. La fonte? Due "senior administration officials".

E’ l’inizio della fine. La Plame infatti è un’agente segreta della CIA e l’articolo ovviamente ne distrugge copertura e carriera. Ma siamo pur sempre nell’era del Patriot Act e della guerra al terrorismo: rivelare segreti nazionali è un crimine serio.

Gli eventi precipitano rapidamente. I giornali iniziano la caccia alle "gole profonde" dell’Amministrazione. Bush, incautamente o ingenuamente, promette il licenziamento per chiunque dell’Amministrazione ne sia coinvolto.

Parte anche l’inchiesta guidata dall’attorney Patrick Fitzgerald. Davanti al Gran Giurì, o in altri interrogatori, sfilano i più alti vertici dell’Amministrazione: dal vicepresidente Cheney, al consigliere politico Rove, in giù.

I primi risultati sono di questi giorni, e sono esplosivi: Lewis "Scooter" Libby, formalmente accusato di ostruzione alla giustizia e falsa testimonianza sotto giuramento, si dimette. Libby, probabilmente ignoto al grande pubblico sino ad oggi, è in realtà un personaggio chiave dell’Amministrazione: braccio destro del vicepresidente Cheney (è soprannominato il Dick Cheney di Dick Cheney), ha avuto un ruolo di prim’ordine in tutte le questioni relative a controterrorismo, armi biologiche ed energia. E, di conseguenza, nella definizione della strategia in Iraq. Ciò che tutti aspettano ora è l’effetto Watergate: che Libby, sotto il peso della prospettiva dei trent’anni di prigione previsti per i reati di cui è accusato, trascini nell’inchiesta direttamente il vicepresidente e gli altri falchi della Casa Bianca. Tutti ostentano sicurezza, ma le prospettive non sono certo allegre.

L’ultimo personaggio di questa intricata vicenda è Judith Miller. La Miller è giornalista al New York Times, e dalla fine del 2002 segue la questione Iraq. Famosi rimangono almeno due suoi pezzi: il primo riporta di come Saddam avrebbe cercato di ottenere i tubi di metallo necessari per la costruzione dell’atomica (altro tassello della falsa intelligence italiana). Nel secondo annuncia che l’unità di cui è al seguito in Iraq ha trovato le tanto sospirate armi di distruzione di massa. Ovviamente, la scoperta si risolve in un nulla di fatto. In entrambi i casi, però, i suoi articoli vengono a stretto giro ripresi dalla Casa Bianca come prova della bontà della sua politica interventista.

I critici l’accusano di essere diventato il perfetto ingranaggio della classica sequenza di disinformazione: il governo chiede, l’intelligence fornisce, i media ripetono, il governo conferma. Le sue fortune svaniscono però a metà del 2004, quando il New York Times fa mea culpa, e riconosce di aver pubblicato informazioni controverse senza l’appropriato livello di controllo e garanzia.

Come riconquistare il prestigio perduto? L’inchiesta torna a pennello: anche lei viene sentita come persona a conoscenza dei fatti dal Gran Giurì di Fitzgerald, in merito ad un sospetto incontro con Libby. Ma rifiuta di rispondere, difende il principio della segretezza della fonte, e passa 85 giorni in prigione, finché Libby non la libera personalmente dal dovere del segreto. Al suo rilascio, la Miller, ex grancassa di guerra, è trasformata in paladina della libertà di stampa. A quando il prossimo editoriale sul Times?

Ultima spina nel fianco dell’Amministrazione Bush le accuse contro due eminenti rappresentanti dei Repubblicani: Tom DeLay, ex-leader del gruppo di maggioranza al Parlamento, e Bill Frist, analogo ruolo al Senato.

Tom DeLay.

Il texano DeLay è accusato di aver aggirato le regole di finanziamento della politica che, nel suo Stato natale, impediscono alle corporation di finanziare i candidati. DeLay, soprannominato "il martello" per lo stile aggressivo che lo caratterizza, è una figura chiave del partito: in Parlamento è l’uomo d’ordine che stringe le fila dei suoi in passaggi legislativi fondamentali (come la legge sul Medicare); fuori dal Parlamento, è il regista di una macchina partitica e di lobbying estremamente efficiente, in grado di raccogliere fondi a livelli record e di cementare i legami con le maggiori corporation. Un suo forzato abbandono riaprirebbe anche la questione della leadership del partito repubblicano, in un momento, come si vede, particolarmente delicato.

Caso per certi aspetti simile, quello di Bill Frist, accusato di aver venduto tutte le azioni della società che gestisce l’ospedale di famiglia due settimane prima del loro crollo in borsa. L’accusa, in questo caso, è di insider trading. L’eventuale conferma delle accuse nei confronti del senatore, da sempre indicato come autorevole candidato per la corsa presidenziale del 2008, riaprirebbe violentemente la questione morale all’interno del partito repubblicano, da più parti accusato di aver raggiunto livelli di corruzione senza precedenti.

Si prospetta dunque un lungo inverno alla Casa Bianca.