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QT n. 20, 26 novembre 2005 Monitor

“No direction home. Bob Dylan”

Il DVD di Martin Scorsese su cinque anni della vita di Bob Dylan: che presenta senza infingimenti le contraddizioni di una star della protesta, che tradisce la sua storia per seguire la propria vocazione.

Uno degli eventi cinematografici del 2005 è l’uscita di un doppio DVD diretto da Martin Scorsese. Si intitola "No Direction Home", e racconta un quinquennio nella vita di Bob Dylan, dal suo esordio sulle scene newyorchesi nel 1961 alla grande e controversa tournée inglese del 1966.

Bob Dylan arriva a New York e inizia a bazzicare, come dozzine di ragazzi di provincia con una chitarra in mano, i locali e i club dove si suona la musica folk. Dopo una brevissima gavetta, la Columbia, un colosso discografico, gli pubblica un album di canzoni tradizionali. Nessuno capisce perché proprio a lui. Cos’ha Dylan più degli altri?

Questo cantante ragazzino che scroccava dischi, letture e ospitalità doveva essere oggetto d’amore ma anche di odio, per chi lo circondava - tutta gente che faceva musica, che conosceva canzoni e le suonava. Dylan arriva a New York, ruba melodie e liriche non solo al passato ma anche ai cantautori coetanei e poi subito, al secondo disco, è capace di scrivere l’inno del movimento per i diritti civili, "Blowin’ in the wind". Diventa un eroe dell’impegno e della protesta. Un idolo. Ma tre anni dopo Dylan è già un traditore: ha abbandonato il folk, suona il rock, ha girato le spalle al movimento, scrive testi beat, visionari, non più sociali.

Il documentario di Scorsese ci mette a disposizione delle tracce per seguire questo percorso. E oltre alla biografia di Bob Dylan, che può interessare o meno, illumina alcune altre questioni nevralgiche, sulla distanza tra arte e politica, tra idea ed espressione, tra studio e talento, tra furbizia e sincerità.

Lontani quarant’anni da quegli esordi fortunati, si può capire meglio perché Dylan sia emerso in modo prepotente in mezzo ai tanti. Coinvolto suo malgrado nel tourbillon culturale degli anni di Martin Luther King, Dylan ha in realtà come unico pensiero guida la sua passione per la musica popolare dei grandi cantanti della tradizione folk e blues americana degli anni Venti-Quaranta, coloro che sono riusciti a dare una forma al miracoloso incontro tra ritmi e melodie africane e anglosassoni. Per Dylan, più che un interesse, è un’ossessione. Capisce che quel modo di raccontare il presente e di esprimere il proprio essere nel mondo unisce speranza e disperazione, e assume in modo spontaneo, immediato, un misterioso alone di eternità. Non gli resta che cercare di carpirne il segreto, provare a riprodurlo con la stessa forza e aggiornarlo ai nuovi linguaggi letterari e musicali. La sua voce sgraziata ha il tono giusto per far emergere dal passato la visceralità di questo tipo di comunicazione.

Scrive nella sua autobiografia, "Chronicles", tradotta nel 2004 da Feltrinelli: "Le canzoni folk sono sfuggenti, dicono la verità sulla vita, che la vita è più o meno una menzogna, ma d’altra parte è così che la vogliamo. Non saremmo a nostro agio se le cose stessero in un altro modo. Una canzone folk ha mille facce e bisogna averle viste tutte se la si vuole suonare. Può variare nel significato e può anche non apparire la stessa da un momento all’altro. Dipende da chi suona e chi ascolta."

Per Dylan la musica è una cosa tremendamente seria. Bisogna conoscere una canzone bene, prima di iniziare a cantarla. Ma oggi ci siamo ormai abituati ad autori che suonano le proprie canzoni con gli occhi fissati sul gobbo elettronico.

Il suo essere fuori dal tempo e dalla contingenza del presente lo rende diverso da tutti gli altri. Ed è esattamente questo che lo renderà, di lì a pochi anni, il traditore della causa dei diritti civili. Dylan è sul palco di Washington quando il reverendo King tiene il suo più famoso discorso. In "No Direction Home", Dylan dichiara che l’emozione di quelle parole ha sempre continuato a illuminare ogni sua scelta. Ma presto smette di scrivere canzoni "di protesta", e rinuncia alla formula voce-chitarra-armonica. Suona con una band elettrica, e viene fischiato.

La tournée inglese del 1966, documentata in modo approfondito nel film di Scorsese, ci mostra un pubblico incazzato. Gli gridano "Giuda"; gli dicono che ha tradito l’eredità del grande maestro Woody Guthrie; reclamano "protest songs". E Dylan deve difendersi, imbroglia l’audience promettendo canzoni folk e suonando invece veloci rock-blues; dichiara che anche quelle sono canzoni di protesta; fa suonare la band a un volume più alto, per coprire i boati; grida all’uditorio che quella è musica americana, non inglese - come a ribadire che non capiscono niente delle radici da cui nascono le cose che canta.

Eppure è questo passaggio coraggioso, questo gettare alle ortiche la sua fama di profeta a renderlo così importante all’interno della storia della cultura. Dylan rinuncia ad essere "la voce di una generazione" e si avventura in un territorio ulteriore, incerto, nuovo: quello in cui rotola come una pietra avendo perso la direzione di casa. Il talento - il genio - non si incammina dietro lo Zeitgeist. Quella che poteva sembrare furbizia era passione musicale; questo che poteva sembrare un tradimento è l’unico modo per essere fedeli, rinnovandola, a una tradizione.

Tra gli intervistati nel documentario di Scorsese c’è anche Joan Baez. Questa parte "rosa" va raccontata. Basta immaginare un ventenne del Minnesota che ascolta i dischi di Joan Baez e ne vede le copertine. Gli piace il suono di quella voce, il suo modo di suonare la chitarra. Dopo alcuni mesi Bob Dylan conosce Joan Baez. Lei diventa la sua madrina artistica, e poi la sua amante. Lo fa salire sul palco per duettare, gli concede una parte della sua fama, lo fa entrare nel suo spotlight. Di lì a pochi mesi Dylan sarà più famoso di lei. Joan lo segue nella tournée inglese del 1965, sicura di essere invitata a cantare con lui. E invece Dylan non ci pensa neppure. Il Dylan del 2005, nel documentario di Scorsese, si giustifica dicendo che "non si può essere saggi e innamorati allo stesso tempo". Una risposta evasiva, alla Dylan. Eppure Joan Baez, a vedere il documentario, sembra essergli rimasta affezionata. Diversamente da Dylan, non ha mai abbandonato il suo impegno di cantautrice militante. Alle manifestazioni di protesta, fino a quelle contro la guerra in Iraq, tutti le chiedono: "Ma oggi Bob viene?".

E lei: "Ma non l’avete ancora capito? Bob non viene mai!".

Il mistero Dylan, più che spiegato, ne esce dunque ingrandito. Nessuno più di lui è ossessionato dal rapporto tra musica e parole; dalla magia di un popolo che crea le proprie canzoni, senza urgenze "artistiche" ma solo espressive, comunicative - eppure quanto profonde. Tutto il resto, la protesta, la poesia, le conversioni (dal folk al rock elettrico, dal giudaismo al cristianesimo, dall’impegno al disimpegno) passa in secondo piano di fronte alla passione inestinguibile per le sorgenti della musica popolare, e per il modo in cui essa è veicolata attraverso singole esistenze umane. Come se la musica fosse una religione che conosce i suoi profeti. Ma i tempi, come scriveva lui, stavano in effetti cambiando. Dylan rimarrà l’ultimo di quella genia.

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