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QT n. 5, maggio 2012 L’intervista

Colpevole fino a prova contraria

Dopo 22 anni nel braccio della morte, Edward Curtis McCarty è stato riconosciuto innocente ed oggi è il testimonial della campagna contro la pena capitale promossa dalla Comunità di S. Egidio.

Edward Curtis McCarty

Quasi non parla. Scatta fotografie, registrando attimi, come a rifarsi di un rullino lungo ventun anni. Con davanti all’obiettivo un tappo chiamato carcere.

In piazza Duomo a Trento, il 1° dicembre 2011, il fotografo silenzioso è Edward Curtis McCarty, uscito nel 2007 dal braccio della morte in Oklahoma. È qui per raccontare la sua esperienza nella “Giornata internazionale delle città per la vita”, campagna mondiale contro la pena di morte promossa dalla Comunità di S. Egidio. Con lui, Emy, la sua fidanzata, avvocato statunitense per i diritti umani, e Piero Bestagini, della sezione piemontese di S. Egidio.

Associazione pubblica di laici, da 9 anni la Comunità di S. Egidio promuove la “Giornata delle città per la vita”, a cui aderiscono oltre 1400 città di tutto il mondo, (anche in nazioni che ancora praticano la pena di morte); Trento vi ha aderito una decina di anni fa. La data ufficiale è il 30 novembre, ricorrenza della prima abolizione per legge della tortura e delle esecuzioni, decretata dal Granducato di Toscana il 30 novembre 1786.

Condannato per un omicidio non commesso, Edward Curtis viene presentato come “testimone e lottatore” di un movimento per cui la vita umana non è negoziabile. “Il mio incontro con la pena di morte è stato peculiare, perchè io sono bianco e appartengo alla classe media - esordisce - in controtendenza rispetto ad una applicazione diffusa negli Stati Uniti, che colpisce i poveri, le persone di colore, quelle con disabilità mentali e basso livello di istruzione. Io vengo da una buona famiglia, ho avuto una buona istruzione e una bella vita, da giovane”.

A 15 anni Edward Curtis inizia ad assumere droghe e ne diventa dipendente. “Ogni volta che mi trovavo seduto e ammanettato in un’auto della polizia mi ripromettevo che avrei smesso. Poi...”. Dopo un anno lascia la scuola ed esce dall’orbita della sua comunità. Fra i tossicodipendenti che frequenta c’è Pamela Kaye Willis, che il 10 dicembre 1982, all’età di 18 anni, viene strangolata. Come conoscente della vittima, McCarty viene chiamato a testimoniare.

Tre anni dopo, le autorità giudiziarie lo richiamano: alla polizia era giunta voce che Edward Curtis aveva raccontato in giro di conoscere l’omicida di Pamela. È un pettegolezzo, ma la polizia non gli crede: considerato un bugiardo, nel maggio 1985 viene incriminato in base a nuovi test del DNA condotti sullo sperma e altre tracce rinvenuti sulla scena del crimine, e viene condannato a morte per l’omicidio della ragazza.

La tentazione del suicidio

Il braccio della morte in un carcere della California

“In carcere ho avuto tempo di pensare e accorgermi che non avevo paura. Ero convinto che l’America fosse uno stato fondato sulla giustizia e una costituzione che ne tutela i cittadini. Negli Stati Uniti ci viene detto che la pena di morte è una cosa buona, riservata alla feccia, ai violenti, a chi ha commesso le peggiori atrocità, e che non è applicata con discriminazioni razziali o economiche. Quando sono arrivato nel braccio della morte ho scoperto che non è vero”.

Con parole lente e scelte, McCarty racconta lo shock della condanna e dell’incarcerazione: “L’estrema violenza della vita in prigione impone di farsi degli amici, per sopravvivere. E quei giovani incontrati nel braccio della morte sono diventati la mia famiglia. Li ho visti portare via uno a uno, e ucciderli tutti. Nel corso del 2001 lo Stato dell’Oklahoma ha ucciso undici miei amici. Uno di loro era il mio migliore amico. Avevamo condiviso la cella per tutti quegli anni”.

È il limite del dolore sopportabile e McCarty decide di farla finita. Scrive ai genitori, chiedendo scusa e sperando che capiscano il suo gesto.

Ma di lì a poco riceve dalla madre una lettera e un articolo di giornale che informa: il perito chimico forense Joyce Gilchrist ed altri agenti del Dipartimento di polizia che lo avevano fatto condannare sono indagati dall’FBI per manomissione dei test sul DNA e reati correlati.

Riaperto il processo, nel maggio 2007 McCarty viene dichiarato non colpevole e scarcerato. “Ci tengo a dire che non è stato l’intervento del mio avvocato, né quello della polizia, a salvarmi - commenta - ma solo una fortuna sfacciata”. E chiosa: “Non so più che dirvi, non so come spiegare”.

La difficile ripresa

Fra il pubblico c’è chi si stupisce e vuole sapere come si vive nel braccio della morte, facendosi perfino degli amici, e se i detenuti ricevano un sostegno psicologico. McCarty racconta che il sistema carcerario americano viene mostrato al pubblico come asettico e perfettamente funzionante, con tanto di aiuole e laghetti ben curati, ma dietro le mura si continua ad uccidere. “Le autorità americane hanno la convinzione che tutti i detenuti del braccio della morte siano pericolosi, al di là di ogni possibile riabilitazione, e li tratta di conseguenza. Chiusi in celle minuscole, umiliati, privati di diritti, proprietà, contatto con la famiglia. È un incubo che rivivo ogni giorno e da cui non posso uscire. Mi definisce. È ciò che sono. La gente mi diceva di dimenticare, di andare avanti; ma non ci riuscivo. Dopo essere uscito di prigione sono rimasto chiuso in casa per nove mesi. Non sapevo cosa fare. Poi “Innocence Project” mi ha proposto di testimoniare contro la pena di morte. Quel giorno ho incontrato la mia fidanzata. Ora sono contento di essere qui. Mi considero fortunato”.

Il caso Chessman

Prigione di S. Quentin, 2 maggio 1960. Dopo 12 anni nel braccio della morte, Caryl Chessman, sempre proclamatosi innocente, viene giustiziato. Un ennesimo rinvio dell’esecuzione arriva troppo tardi: Chessman è ancora vivo, ma la camera a gas non può essere aaperta senza pericolo per i presenti.

Meno fortunato di McCarty, il 2 maggio 1960, pochi secondi prima di una telefonata che ne sospendeva l’esecuzione, Caryl Chessman moriva nella camera a gas di S. Quentin. Fu una vicenda celebre del primo movimento americano contro la pena di morte, grazie alla sua autobiografia “Cella 2455 braccio della morte”; Chessman era disposto anche a morire senza più lottare, se fosse servito ad eliminare la pena di morte dagli statuti californiani; prima di essere giustiziato, disse: “Io non sono colpevole. Sono sicuro che le generazioni future mi daranno ascolto”.

Forse lo ha trovato, ascolto, se oggi 139 Stati, cioè oltre due terzi delle nazioni di tutto il mondo, hanno abolito la pena di morte; 44 inoltre sono i Paesi “abolizionisti di fatto”, cioè che non eseguono sentenze capitali da almeno dieci anni, oppure sono vincolati a livello internazionale a non applicare la pena capitale. Ad applicare la pena capitale rimangono 42 Paesi, fra cui Cina, Iran, Pakistan, India, Giappone e Stati Uniti. Non fosse per la Bielorussia e la Russia, l’Europa ne sarebbe libera.

Nel 1989 Amnesty International ha lanciato “Quando lo stato uccide”, la prima campagna mondiale contro la pena di morte. Nel 2007 l’azione congiunta delle organizzazioni abolizioniste di tutto il mondo è culminata nell’adozione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU di una risoluzione che chiede una moratoria globale sulle esecuzioni: le Nazioni Unite riconoscono l’assenza di dati atti a dimostrare che l’uso della pena capitale sia un deterrente efficace contro i crimini più efferati.

Per saperne di più

  • Sito della campagna contro la pena capitale organizzata dalla Comunità di S. Egidio; è possibile scaricare dal sito il modulo per sostenere con la propria firma la campagna di moratoria contro la pena di morte.
  • Il sito italiano di Amnesty International.
  • Nessuno tocchi Caino, lega internazionale di cittadini e parlamentari contro la pena di morte.
  • Human Rights Watch, osservatorio per i diritti umani.
  • The Innocence Project, organizzazione USA che aiuta detenuti potenzialmente innocenti accusati sulla base di test del DNA.
  • Sito del National Geographic, alla sezione Video / Full Episodes il capitolo “Hard Times”: documentari girati in carceri americani di massima sicurezza Caryl Chessman, Cella 2455 braccio della morte, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 1954.

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Commenti (2)

ADolzan

Buongiorno Alex, sto seguendo da mesi il tema carcerario e non conosco il film che segnala. La ringrazio dell'informazione, me lo procurerò senz'altro.
Approfitto dell'occasione per anticipare che sul numero in edicola da domani, insieme al collega L. Facchini, portiamo avanti il discorso sulla realtà carceraria con uno spaccato su quella della casa circondariale di Trento e associazioni che si occupano di interventi di rieducazione alle persone in detenezione.
Un saluto cordiale,
ADolzan

Alex

In Italia per fortuna (per merito o per una serie di casualità) non abbiamo la pena di morte tuttavia sono sempre le classi sociali emarginate che pagano lo scotto della non-funzionalità del sistema giustizia-carcere. La carceri si assomigliano dappertutto anche se in USA, forse in modo più marcato, i detenuti non sono trattati come dovrebbero esserlo gli esseri umani.
Recentemente ho visto un film sulla vita carceraria brasiliana che ci racconta un'esperienza per certi aspetti diversa. Il titolo del film è Carandiru, diretto da Hector Babenco, 2003. Ne suggerisco la visione.
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