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QT n. 3, 11 febbraio 2006 Monitor

“Brokeback Mountain”: cinegenia gay

Un amore gay in un western assolutamente canonico: un messaggio "corretto", convogliato con grande efficacia.

E’ stato forse l’Oscar come miglior film straniero attribuito nel 2000 a "Tutto su mia madre" a sdoganare l’immaginario gay a livello di cultura di massa. Se il cinema del Pedro Almodóvar degli anni Ottanta si rivolgeva al pubblico ammiccante e di nicchia della movida, vent’anni dopo, con film meno spigolosi come "Tutto su mia madre" e poi con "Parla con lei", il regista spagnolo è riuscito a raggiungere un’audience più larga, universale.

I film a tematica omosessuale sono ora usciti dai ghetti dei festival del cinema gay-lesbico e non si rivolgono dunque più solamente al "loro" pubblico. Se per certi versi i risultati artistici possono soffrire di questi compromessi (l’Almodóvar di "Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio" è superiore a quello de "La mala educación"), per altri versi l’effetto sociale che producono, la ricaduta sul nostro immaginario è positiva e normalizzante: oggi i nostri schermi sono pieni di storie di omosessuali. Sono storie cinegeniche, bucano lo schermo e incontrano il favore di un pubblico generalizzato.

Dunque, è arrivato nelle sale il Leone d’oro veneziano, "I segreti di Brokeback Mountain". In questo film, Ang Lee (laccato regista di "Mangiare bere uomo donna" e "Ragione e sentimento") racconta la storia di due mandriani costretti a condividere la solitudine dei pascoli in quota e il ristretto spazio di una tenda. Ne è uscito un western omosessuale che si sta dirigendo lanciato verso la notte degli Oscar.

Il bello del film è che la storia è raccontata in uno stile che più hollywoodiano di così si muore. Basta ascoltare le musiche, molto simili a quelle che si trovano negli scaffali della New age sotto l’etichetta "Western relax": pulite chitarre acustiche riempiono i soliti spazi dell’Ovest dove si muovono attori dal fascino sicuro a impersonare gli innamorati Marlboro men. Intorno a loro, le strade impolverate, le colline verdeggianti e i torrenti di montagna sono fotografati con inquadrature che lasciano respirare i paesaggi. E’ così che si fa quando si decide di stare dentro al canone del western, il più codificato dei generi cinematografici.

Il film sembra rivoluzionario proprio perché è conservatore. Perché integra all’interno delle convenzioni classiche del film hollywoodiano che parla di sentimenti una tematica nuova, quella dall’amore omosessuale tra uomini dall’aspetto sano e robusto, ruvido e solitario. I quali, in quanto cowboy, dovrebbero per definizione incarnare un prototipo di virilità. La novità de "I segreti di Brokeback Mountain" sta nell’aver convogliato questi sospetti tematici (sempre esistiti) sulla figura del macho per antonomasia all’interno di un film del tutto ligio alle convenzioni narrative dell’industria hollywoodiana. Gli intrecci emotivi, alla fin fine, rimangono proprio gli stessi dei tanti incontri tra uomini e donne che il cinema delle major USA ci ha sempre raccontato: non cambia il tipo di sentimento e non cambia il modo che Hollywood ha di raccontarcelo. A fare la storia è sì la circostanza che quei due siano entrambi maschi, ma se la novità è solo in questa sostituzione, alla prova dei fatti il cambiamento è più di apparenza che di sostanza.

La parola d’ordine è dunque "normalità". Se quegli amori gay si possono integrare così facilmente all’interno degli stilemi e dei canoni del cinema hollywoodiano, deve davvero voler dire che essi sono piuttosto simili ad amori cui siamo più abituati, ad esempio quelli raccontati nei grandiosi, fiammeggianti melodrammi altoborghesi di Douglas Sirk, i cui film ("Secondo amore", "Magnifica ossessione"…) sono trasmessi tranquillamente nei pomeriggi di Retequattro. In quelle storie che raccontano matrimoni altolocati si trova già raccolta la serie completa dei motivi di incontro e distacco sentimentale. Non per niente, Douglas Sirk è uno dei registi preferiti di cineasti orgogliosamente gay come Rainer Werner Fassbinder, lo stesso Pedro Almodóvar, Todd Haynes. I suoi film, parlando genericamente di "amore", contenevano già tutto: l’amore tradizionale "tra complementari" e ogni sua negazione, che non ne mette in discussione l’essenza.

Il cowboy può quindi dotarsi del poco dispendioso accessorio dell’omosessualità pur rimanendo fedele ai suoi principi e, a conti fatti, identico a se stesso. Il suo rigore non si sposta di un millimetro per motivo di questo banale accidente della preferenza sessuale.

Fuori dallo schermo, usciti in strada, non ci sembra che la simpatia per la causa omosessuale sia altrettanto univoca e indiscussa. Ma spesso funziona così. Dalle lande dell’immaginario cinematografico e artistico, questa nuova apertura, ormai d’ordinanza, non dovrebbe impiegare poi molto a raggiungere anche gli angoli più ingrigiti delle nostre province.

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