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QT n. 4, 25 febbraio 2006 Monitor

“Jarhead”

La prima guerra del Golfo raccontata attraverso gli occhi dei marine: sbandamenti personali e devastazioni famigliari, per una finalità comunque percepita senza senso.

Jarhead", del regista di "American Beauty" Sam Mendes, racconta la prima guerra del Golfo attraverso gli occhi di un marine, dalla cui autobiografia il soggetto è tratto. La sua voce off ci introduce nelle accademie militari; poi ci spostiamo nei deserti dell’Arabia e del Kuwait. La focalizzazione interna, la prima persona, ci porta fra i compagni di reparto del protagonista – ragazzoni ebeti, violenti, iper-volgari. Lo spettatore è in mezzo a loro. Lo sforzo di fare un passo indietro, di vedere l’assurdità di quella situazione sta più dalla parte del pubblico che da quella di chi ci racconta la storia immergendoci in essa. Facendo un passo indietro, si riesce a vedere a chi, nel concreto, è affidato il ruolo di poliziotto del mondo: jarhead, teste di latta, uomini dal look ridicolo, deprivati del senso critico, con tendenza all’impazzimento, drogati di guerra.

E’ interessante notare come in "Jarhead" siano inseriti almeno tre riferimenti espliciti al cinema di guerra, di cui evidentemente i marines sono fan. Nel cinemino interno all’accademia militare proiettano "Apocalypse Now". Il film di Francis Ford Coppola è considerato una delle grandi denunce cinematografiche del feroce non senso della guerra, al punto da esser stato il primo war-movie americano che non ha potuto contare sull’appoggio logistico e tecnologico dell’esercito USA. In "Jarhead", invece, i soldati esultano saltando sulle sedie quando passa sullo schermo la famosa scena dell’attacco degli elicotteri al villaggio vietnamita, sulle note della "Cavalcata delle Valchirie". Guardato così, il film perde tutto il suo significato. Se ne osserva solo la superficie letterale, ci si ferma a un primo livello di lettura, auto-referenziale, al gesto, alla tecnica militare, al macchinario bellico. Non si riesce a vedere che quelle armi impressionanti radono al suolo misere capanne e bruciano donne e bambini. L’orrore che Coppola voleva comunicare non riesce ad essere recepito da quegli occhi esaltati. Il messaggio non viene letto, si perde, viene stravolto.

Ci sono altri due riferimenti al cinema di guerra. Una moglie manda al marito, già di stanza in Arabia, un VHS de "Il cacciatore" di Michael Cimino. Anche questo è un film che, in teoria, servirebbe a far passare la voglia di sparare: Robert De Niro, tornato a casa dal Vietnam, decide di non tirare il grilletto, risparmiando la vita a uno splendido cervo. E invece i soldati mettono su la cassetta con l’idea di guardarsi "un bel film di guerra". Anche se poi scoprono che sopra al "Cacciatore" la moglie ha registrato, per vendicarsi di non si sa cosa, un filmino domestico di lei che si scopa un vicino.

Parolacce, volgarità, doppi sensi, allusioni sessuali coprono ogni minuto di film. Nel contesto militare, sembra l’unico tipo di dialogo possibile. La pesantezza, l’insistenza di questo linguaggio rinvia a una drammatica constatazione di fondo: l’esercito devasta le famiglie e le relazioni. Nel campo base saudita, i soldati predispongono una "bacheca della vergogna" che raccoglie le foto di mogli e compagne fedifraghe. Anche il protagonista del film, quando tornerà a casa, non troverà la fidanzata ad aspettarlo. La sua famiglia (il padre è un reduce del Vietnam) era già stata rovinata nella psiche dalla guerra. Sembra una condanna da tragedia greca, con le colpe e i destini che si tramandano di generazione in generazione.

In questo contesto si colloca la terza citazione cinematografica. Durante un’azione bellica, un registratore diffonde "Break on Through" dei Doors. La si ascoltava già sulla nave di "Apocalypse Now", quando risale il fiume. Qualcuno infatti dice: "Questa è la musica di un’altra guerra. Non possiamo averne una cazzo di nostra?". L’America non riesce a liberarsi delle guerre del passato; sembra costretta a farne altre proprio per annullare la memoria del Vietnam. Ma non può disfarsene. Quella guerra – metafora, ragnatela – continua a intrappolarla, a perseguitarla come un fantasma.

Tutto quel che rimane da raccontare è dunque lo sbandamento dei soldati, come sempre pedine in un gioco più grande di loro. Nei loro confronti, lo spettatore si trova in bilico tra la condanna e la pena, il disprezzo e la simpatia, lo sdegno e la rassegnazione.

Quei soldati sono costretti ad adattarsi alla mancanza di senso politico all’agire militare. Dice uno di loro: "Fregatene della politica, OK? Siamo qui. Tutto il resto sono puttanate".

La retorica militare trova solo spiegazioni auto-referenziali. Gli alti gradi dell’esercito tentano di rendere riconoscibile il nemico, mostrano fotografie, arringano i soldati come durante uno show, ma senza convinzione. Si rinuncia persino a credere di essere dalla parte del giusto, quando i pozzi di petrolio bruciati rendono nero il cielo, monito di motivazioni alla guerra per cui non varrebbe la pena uccidere o morire.

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