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QT n. 4, 25 febbraio 2006 L’editoriale

Al di là dei programmi

Qualche scetticismo sulla rilevanza dei programmi a fini elettorali. Cosa allora dovrebbe contare? La cultura, la storia di una coalizione; e soprattutto i risultati.

Confesso che non ho letto le 260 pagine che formano il volume del programma dell’Unione. Se debbo essere sincero fino in fondo, credo che nemmeno in futuro dedicherò del tempo ad una così ponderosa occupazione. Sono certo, anche senza averlo letto, che esso contenga ottimi propositi e soluzioni tecniche dei problemi nazionali condivisibili ed efficaci. Ma so che tali documenti hanno per loro natura due caratteri che mi inducono a non considerarli importanti.

Anzitutto sono basati inevitabilmente su previsioni che, per quanto accurate, raramente si verificano con la desiderabile puntualità. Il flusso casuale degli eventi, il divenire incontrollabile delle vicende umane è tale di solito da sconvolgere le previsioni più scrupolose. L’azione di governo è investita da nuove situazioni che impongono urgenze e priorità non messe in conto, talché i provvedimenti diligentemente elencati nel programma elettorale vengono omessi o modificati sotto l’urto imperioso delle nuove esigenze.

In secondo luogo i programmi elettorali sono sempre inficiati da un doveroso calcolo volto ad accattivare il consenso delle elettrici e degli elettori. E’ questo uno dei vizi intrinseci al suffragio universale. Solo in parte un messaggio elettorale ispirato al bene comune ha presa sugli elettori. Esso deve assecondare gli interessi parcellari, di categoria, di singole porzioni di territorio. Le motivazioni del consenso elettorale sono sovente radicate nel particolare, e non tengono conto dell’interesse generale dell’intera comunità. Un candidato che promettesse lacrime e sangue per fronteggiare una reale situazione di crisi sarebbe destinato a sicura trombatura. Anche un programma di sobrietà e modesti sacrifici non è il più idoneo a raccogliere voti. Ecco perché i programmai elettorali, se concepiti con onesto rispetto della verità, sono destinati a non avere successo. E’ più facile che incontrino fortuna se smaltati da generose promesse, anche se illusorie. Vedasi a riprova la vittoria delle destra berlusconiana alle elezioni del 2001. E’ dunque possibile che anche il programma di Prodi sia abbellito da intenzioni propiziatorie difficilmente realizzabili.

Scartati dunque i programmi come criterio di scelta, ciò che distingue i due schieramenti è invece la loro diversa cultura e la loro diversa storia. E’ questa diversità che si è tentato e si tenta di nascondere. Poiché è impossibile parlare bene di Berlusconi e dei suoi compari, la propaganda della destra, assecondata dai telegiornali e dai commentatori cerchiobottisti, tende ad accreditare un’immagine della sinistra altrettanto degradata. Alle clamorose prassi illegali di Berlusconi, si è contrapposta la inconsistente montatura su Unipol e cooperative rosse. Alle posizioni razziste di personaggi del governo o della maggioranza si risponde enfatizzando isolate dichiarazioni antipatriottiche di un esponente di Rifondazione Comunista o i deliranti slogan su Nassiria di gruppuscoli del tutto estranei anche alla cosiddetta sinistra radicale. I dissensi soffocati interni alla coalizione di destra vengono coperti dalla plateale rappresentazione della sinistra come un’armata brancoleone dilaniata fra Mastella e Pannella.

I fascisti dichiarati, imbarcati da Berlusconi accanto ai fascisti occulti di Alleanza Nazionale, sono compensati dalla stucchevole accusa che a controllare il centrosinistra sono i comunisti. Non potendo puntare sugli inesistenti meriti dello scadente governo di destra, si inventano i demeriti dell’opposizione. Non potendo contare sull’amore per sé, la destra gioca tutto sull’odio per l’avversario. Sa che l’odio mobilita più dell’amore. E quindi impegna tutte le sue energie a descrivere Prodi e compagni in termini tali da suscitare verso di loro disprezzo, antipatia, paura.

Questa mediatica deformazione dei lineamenti dell’Unione costituisce il pericolo maggiore. Da qui la necessità di marcarli con orgogliosa ostinazione.