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QT n. 4, 25 febbraio 2006 Monitor

“Les Grands Ballets Canadiens”

Emozioni, dissacrazioni, coninvolgimento nello spettacolo della compagnia di ballo di Montreal, in "Minus one", dell'israeliano Ohad Naharin.

Far muovere il mondo in modo diverso, questo il motto e lo spirito che contraddistinguono ogni creazione della compagnia di ballo canadese. Di stanza a Montréal, i "Grand Ballets" amano recarsi in tournée all’estero portando ovunque la loro idea di un’arte in grado di emozionare e coinvolgere gli spettatori, nella convinzione che la danza non conosca confini di alcun genere. Un’apertura di stampo multietnico che si manifesta appieno anche nella scelta di interpretare sia i lavori dei più grandi maestri del Novecento che quelli di autori emergenti, indipendentemente dalle loro origini culturali.

Il coreografo Ohad Naharin.

Lo spettacolo "Minus one", creato appositamente per la compagnia dal coreografo israeliano Ohad Naharin, ha riscosso un gran successo ad ogni sua rappresentazione e, dopo la prima italiana a Reggio Emilia, anche a Trento gli spettatori sono accorsi in massa ad affollare i palchi del Teatro Sociale. All’ingresso c’era perfino una volante della polizia, non si sa se attirata dall’insolito movimento di pubblico oppure - mala tempora currunt! - allertata da qualche segnalazione in merito alle origini del coreografo. L’esibizione, già iniziata mentre il teatro lentamente si riempiva con l’assolo di un ballerino che, tramite gesti suadenti e ironici, invitava ad entrare, è continuata in un clima informale e divertente, senza deludere le aspettative degli spettatori, i quali sono stati addirittura coinvolti a prender parte alla performance in prima persona.

L’obbiettivo di insegnare per mezzo dell’arte una modalità alternativa di movimento - nonché un altro modo di interpretare il mondo - non passa infatti solo attraverso la visione ma anche dalla sperimentazione personale; ecco quindi che verso la fine dello spettacolo alcuni "osservatori" più o meno consenzienti vengono prelevati dalla platea e portati in scena per dialogare a passo di danza con i ballerini. Sul palco sale un’umanità alquanto variegata: insegnanti di danza in incognito e ragazzine all’ultima moda, ma anche signori di una certa età, a giudicare dai capelli e dai baffi bianchi, che riescono a stupire perfino i danzatori professionisti con mosse imprevedibili. Tra i protagonisti più esilaranti e coraggiosi citiamo sicuramente la nonnina in rosso, che ha accennato qualche passo di mazurca, e il ragazzo dal classico look impiegatizio che, dopo essersi rimboccato i polsini della camicia, è stato costretto a trasformarsi in cavallo e a trasportare in giro un cocchiere impazzito. L’inaspettata performance si è infine conclusa con un lento appassionato tra un ballerino e una spettatrice, la quale ha avuto il suo momento di gloria riscendendo in platea accolta da un’ovazione generale.

Tutto ciò a dimostrazione dello spirito ironico e a tratti dissacrante di Naharin che, mettendo a soqquadro le regole implicite di ogni rappresentazione teatrale, proibisce ai suoi interpreti di prendersi troppo sul serio e li costringe al contrario ad esibire la propria normalità, confondendosi, grazie all’inconsueto scambio di ruoli, con il pubblico pagante.

In un intermezzo meno comico e più riflessivo, il coreografo induce i ballerini a raccontarsi uno ad uno attraverso i loro passi preferiti e attraverso le voci registrate, che narrano la nascita della loro passione; si tratta ancora una volta di un modo per avvicinare tale esperienza a quella degli spettatori e per tentare di far comprendere il grande piacere che li spinge a danzare. Certo, le motivazioni sono diverse ed eterogenee (si va dalla tragedia personale al puro esibizionismo, dalle due birre bevute prima di cominciare lo spettacolo alla necessità di esercizio fisico contro i problemi ai reni), ma il fine rimane sempre lo stesso: riuscire, attraverso la danza, ad emozionare e ad emozionarsi.

I registri sui quali gioca l’eccentrico coreografo israeliano sono molteplici: si passa dall’umorismo
alla tristezza, attraversando senza soluzione di continuità i territori della sensualità e dell’irriverenza, con l’aggiunta di qualche intervallo grottesco, come l’entrata in scena di una sorta di dark-lady sui trampoli. Naharin non dimentica però le sue origini e nel ricco accompagnamento musicale dello spettacolo inserisce anche alcuni canti ebraici, interpretati a squarciagola dagli stessi danzatori. Elemento fondamentale in molte delle sue coreografie è questa particolare forma di ritualità ricalcata sulle usanze tradizionali del suo popolo, caotiche e dense di significati, contaminata anche da diverse influenze culturali. In uno dei pezzi rappresentati a Trento, alcuni danzatori escono infatti di scena ruotando vorticosamente su se stessi come nei rituali dei dervisci, dopo essersi sporcati il volto e il petto con del colore grigio.

Alternando momenti di comicità a momenti di intenso lirismo lo spettacolo improvvisamente si conclude com’era cominciato: la compagnia al completo invade il palco accennando piccoli gesti quasi impercettibili e saluta il pubblico sulle note del celebre motivetto "Que sera, sera".

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