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Anche gli onorevoli diffamano

La lunga controversia fra Paolo Jelo e Tiziana Parenti.

L’articolo 68 (modificato) della Costituzione così dispone al primo comma: "I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni".

E’ un principio giusto che permette ai parlamentari di svolgere il loro mandato di legislatori e di rappresentanti della volontà popolare in piena libertà e senza timore alcuno. Il Parlamento ha però fatto cattivo uso di questo principio, coprendo con lo scudo della immunità anche dichiarazioni e giudizi che nulla avevano a che fare con la funzione di deputato e senatore, cancellando in pratica per i parlamentari i reati di diffamazione o di calunnia. Così operando si è svilito l’art. 68 e si è inferto un colpo anche al nuovo art. 111 della Costituzione che regola il giusto processo.

Un caso interessante , su cui si è pronunciata il 6 dicembre 2005 la Corte europea dei diritti umani, è quello che riguarda il dott. Paolo Jelo e la dot.sa Tiziana Parenti, all’epoca entrambi pubblici ministeri presso il Tribunale di Milano. Cosa era accaduto?

Durante un’audizione presso il Consiglio superiore della magistratura il dott. Paolo Jelo aveva criticato il metodo di lavoro della sua collega. La dott.sa Parenti, che nel frattempo era stata eletta in Parlamento, conosciute le critiche, aveva dichiarato a la Repubblica che i giudizi di Jelo erano imputabili non tanto a malafede, ma "alla sua giovane età e alla sua poca esperienza". Il dott. Jelo, ritenendosi diffamato, sporse querela contro la dott.sa Parenti. Ma il Tribunale di Roma non potè celebrare il processo, perché la Camera dei deputati, cui appartcneva la dott.sa Parenti, oppose l’art. 68 comma l° affermando che le dichiarazioni erano state espresse nell’esercizio delle funzioni di parlamentare.

Tiziana Parenti

Paolo Jelo ricorse allora alla Corte Costituzionale, che respinse il ricorso per le medesime ragioni. A questo punto il Tribunale di Roma assolse la Parenti per aver agito nell’ambito dei diritti della sua funzione.

Anche ai non addetti ai lavori appare chiaro che la querelle fra i due non aveva nulla a che fare con l’esercizio delle attività parlamentari. Il dott. Jelo si rivolse allora alla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’art. 6 della Convenzione (ratificata dall’Italia nel 1955), secondo cui "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale".

La Corte ha dato ragione a Paolo Jelo affermando:

l) la disputa riguardava le due singole persone e non era minimamente collegata alle funzioni parlamentari ; 2) l’arbitraria applicazione dell’art. 68 aveva privato il dott. Jelo del diritto ad un’equa e pubblica udienza.

Il dott. Jelo ha infine ottenuto 8.000 euro di risarcimento e il rimborso delle spese legali.

La sentenza è riassunta e commentata dal giurista Giulio Garuti in "Diritto penale e processo", n° 2 del 2006.

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