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QT n. 7, 8 aprile 2006 Monitor

“Il caimano”

Il film di Nanni Moretti, legato alla strettissima attualità, al contempo ambisce a durare, diventando un segno dei tempi. Un teso film politico e civile su Berlusconi, sulla difficoltà a parlarne, che solo gli anni ci diranno quanto riuscito.

Il cinema di Nanni Moretti è così legato all’attualità che invecchia tra le riprese e la distribuzione nelle sale. Non parliamo necessariamente di politica. Un anno fa, per dire, aveva senso chiedersi, come fa il bambino del "Caimano", se è un più bravo portiere Dida o Buffon. Ma oggi uno che segue il calcio non si porrebbe più quell’interrogativo, visto che il portiere del Milan ha infilato una serie di papere. E’ una domanda che è già passata d’attualità.

Tutto il cinema politico di Moretti si deve confrontare con questo problema. E’ un grosso limite per chi fa cinema e non inchiesta o giornalismo. Moretti, nelle sue migliori riuscite, è capace di rivoltare questo limite in pregio. Basta riguardare oggi "Palombella rossa", un film che parla del disorientamento del PCI all’epoca della caduta del muro di Berlino. La metafora della pallanuoto, il trattamento leggero e sfaccettato della narrazione, lo sguardo partecipato del protagonista lo rendono un film, scrive il Morandini, "sincero come una tegola in testa". Ci racconta quel momento storico e allo stesso tempo lo astrae, ne fa il sinonimo di molte altre crisi. Se si vuol fare un cinema che resta, infatti, bisogna riuscire a stemperare il quotidiano per far dire alle figure che popolano la cronaca qualcosa di duraturo.

"Il caimano" avrà quindi tutto da guadagnare a rivederlo tra qualche anno, lontano dagli intrighi di una terrificante campagna elettorale, a bocce ferme, a Berlusconi spento. Staremo a vedere se i ritardi (tipo Dida) sulla cronaca sapranno diventare segni del tempo, e se questi segni del tempo a loro volta sapranno ridestare il passato come piccoli segni di vita.

Moretti sembrava essersi allontanato, con "La stanza del figlio", da questa esigenza prioritaria di confrontarsi col quotidiano. E anche nel "Caimano" emerge la volontà di parlare d’altro, di una separazione familiare che occupa tanta parte del film. Probabilmente Moretti avrebbe continuato a fare film in quella direzione, se solo non dovessimo vivere un presente che si identifica nella figura di Berlusconi. Non è il momento per lasciarsi prendere troppo dal privato.

L’esigenza primaria di questi tempi è liberarsi di un pensiero che da più di un decennio impegna la testa di ogni persona di sinistra. Perché il problema non è neanche più di tanto quello di essere governati dal centrodestra. Il problema è l’incarnazione caimanesca di quel centrodestra. Il problema, ci dice Moretti nel film, è la già incassata vittoria del berlusconismo, un fenomeno che durerà oltre l’avventura politica dell’uomo Berlusconi.

Ma è possibile parlare di Berlusconi senza dire le solite cose, alla Travaglio, alla Citizen Berlusconi, alla Deaglio, senza dire le cose che chi le vuol sapere già le sa? Sono ragionamenti auto-evidenti per chi ha orecchie per ascoltarli e inutili, per nulla coinvolgenti, per le orecchie impenetrabili di chi il Caimano ha deciso di rivotarlo. E’ un’obiezione che Moretti fa già a se stesso nel film. L’unico modo, quindi, per evitare di dire le solite cose è costruire sopra e oltre la figura di Berlusconi un ragionamento artistico, usando i mezzi più nobili della narrazione cinematografica. E’ in questo che "Il Caimano" risulta essere un film non pienamente riuscito.

Moretti vuole/deve parlare di Berlusconi e sceglie di mettere in scena la sua difficoltà a farlo. Di fronte a tale urgenza non trova altra soluzione se non quella di parlare della fatica ad affrontare il proprio soggetto. Al cinema, beninteso, questo trucchetto ha regalato almeno un paio di capolavori, "Otto e mezzo" di Fellini e "Stardust Memories" di Woody Allen. Sono film che mettono in scena allo stesso tempo la difficoltà della creazione artistica e la difficoltà personale del singolo creatore. Si tratta, per un cineasta, di un lavoro delicato, sul filo dell’equilibrista, che rischia di far pesare troppo al film il senso di inadeguatezza da cui esso nasce. Nanni Moretti non precipita giù dalla corda, però un po’ vacilla: si nota un imbarazzo a tener stretto il racconto, a non lasciarselo scappare di mano. Le parti più riuscite sono quindi quelle in cui il regista stringe di più il pugno: la scena inquietante, praticamente horror, della discesa in campo di Berlusconi, con la ripresa del condominio dalle finestre illuminate solo dagli schermi ipnotici dei televisori; e il finale, anch’esso da film di genere, della guerra civile – un finale, chissà perché, svelato da tutti i giornali, contravvenendo a una regola non scritta del giornalismo cinematografico.

Ma la domanda politica che ci si è continuati a fare in queste settimane è: "Il Caimano" avrà spostato voti? Ci si era chiesti lo stesso all’uscita di "Fahrenheit 9/11". Micheal Moore può aver rafforzato l’orgoglio di partito repubblicano favorendo Bush; oppure regalato voti al candidato democratico, anche se in quantità non sufficiente. Se la sociologia fosse una scienza esatta, occorrerebbe ripetere l’esperimento delle elezioni Bush-Kerry eliminando la variabile "Fahrenheit 9/11" e vedere cosa succede. Evidentemente non si può fare, quindi ognuno si terrà dubbi e convinzioni. Ma come tattica per indurre un elettore a cambiare a breve termine schieramento politico, fare un film non è una grande idea. Come giustamente rileva Eugenio Scalfari nel penultimo numero dell’"Espresso", i film, casomai, lavorano su tempi lunghi, sull’immaginario, sulla formazione delle persone, sulla loro crescita come cittadini. E’ quella cosa che, volendo, si può anche chiamare cultura.