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QT n. 9, 6 maggio 2006 Monitor

“Il regista di matrimoni”

Non convince l'ultimo film di Bellocchio: la trama originale e gli stimolanti spunti di riflessione non salvano un film involuto, narcisista, astioso.

Il nuovo film di Marco Bellocchio, "Il regista di matrimoni", ci mette di fronte a una lettura obbligata: bisogna interpretare il racconto come un lungo sogno. Non c’è modo di uscirne altrimenti: solo inquadrandolo in questa dimensione onirica si può dare un senso alle incoerenze, ai passaggi inspiegabili, alle scene scollegate e a tutti i momenti non indispensabili – le citazioni, i simbolismi, le prediche. Guardando il film come si guarda un sogno si riesce a non liquidarlo, ma non ancora a farselo piacere.

A riassumere la trama, il film risulta originale, non scontato: un regista in crisi personale e professionale fugge in Sicilia, dove assume l’incarico di filmare il matrimonio di una nobile rampolla di cui si innamora. Ma se nei due film precedenti ("L'ora di religione" e “Buongiorno, notte”) Bellocchio era riuscito a controllare la passione intellettuale che lo porta a inzuppare le sue storie nella psicoanalisi, facendone dei racconti dove gli elementi onirici arricchivano la narrazione senza fagocitarla, "Il regista di matrimoni", al contrario, assume un andamento involuto e narcisistico.

Molte scene appaiono inessenziali, con personaggi inseriti ad arte per permettere all’autore di dire cose sul mondo, o per predicare sul cinema. Il ruolo del regista Smamma, che finge di essere morto per poter ricevere finalmente un David, serve ad esempio a Bellocchio per recriminare sullo stato di salute del cinema italiano: gli fa dire che è tutta una questione di parrocchie e parrocchiette e che in Italia quando si è morti si diventa, a prescindere, santi subito. Tutto questo può anche essere vero, ma non basta a legittimare la presenza di Smamma, che rimane lì solo a mostrare in modo un po’ puerile che a Bellocchio brucia ancora la mancata assegnazione del Leone d’oro a "Buongiorno, Notte" al festival di Venezia del 2003.

Il film si propone anche come una riflessione sullo sguardo e sul cinema. La pellicola, in effetti, lascia intere praterie di spazi liberi per l’interpretazione, uno spazio in cui la critica (cui il film è molto piaciuto) può galoppare senza impedimenti. Ma questa libertà di interpretazione non si basa, ci pare, su una profondità di contenuto, ma piuttosto su una fumosità tematica e formale.

Una delle riflessioni potenzialmente interessanti di Marco Bellocchio va dietro a questa domanda: oggi che tutti riprendono e fotografano, una persona che ha del talento nello sguardo riesce davvero a distinguersi? Il personaggio interpretato da Sergio Castellitto sembra infatti possedere una decisa superiorità nel suo modo di guardare al mondo. Il regista di matrimoni dilettante gli chiede di riprendere una coppia di sposi su una spiaggia, e lui, su questo, dal niente, riesce a inventarsi una narrazione per immagini. Di fronte alla proliferazione di immagini digitali, da videocamere e da fotocamere, siamo ancora capaci di prenderci il tempo per guardare con attenzione? Per distinguere, in questa accumulazione, il buono dal cattivo? Purtroppo anche questo ragionamento sembra servire all’auto-compiacimento di Bellocchio, che gioca, al di là di ogni giustificazione empirica, il ruolo dell’incompreso: quando il regista dilettante dice al professionista: "Voi artisti vedete cose che a noi comuni mortali non è dato di vedere", il dubbio che Bellocchio stia ancora parlando di se stesso fa aggrottare il sopracciglio.

Marco Bellocchio non riesce poi a reggere un confronto di cui troppo immodestamente va in cerca: quello con Luis Buñuel. Il grande regista spagnolo sapeva tenere in mano tutte le sue esagerazioni e i suoi moralismi con un’autorevolezza e un ghigno che fanno sembrare "Il regista di matrimoni" davvero leggerino. Anche la polemica anti-clericale è condotta all’insegna del detto buñeliano "Grazie a Dio sono ateo". Si finisce infatti per vedere religione dappertutto: la fuga di Castellitto dai simboli religiosi (il matrimonio in chiesa della figlia) si rivela una condanna a trovarne altri (il matrimonio in chiesa della principessina). Ma gli spunti grotteschi appaiono innocui marameo – i preti con la parlata da checche, o la cerimonia nuziale infestata da canti in chiesa ritmati da timpani assordanti. La claustrofobia clericale, ne "L’ora di religione", era raccontata davvero bene: lì il grottesco rendeva il film corrosivo e l’astio era gonfiato da una legittima sindrome di accerchiamento da santificazioni multiple.

Ne "Il regista di matrimoni" sembra che a Bellocchio manchi il respiro al di fuori di questo cerchio. E finisce quindi per andare egli stesso a cercare – in oscure cerimonie religiose vissute come esotici rituali tribali, o fra la borghesia nera – i nemici che maggiormente lo fanno sentire a suo agio