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QT n. 10, 20 maggio 2006 Monitor

Trento Film Festival: “Grizzly Man”

Di Werner Herzog l'inquietante film ricavato dai video di un appassionato studioso di orsi. Un discorso disincantato e tragico sul rapporto tra uomo e natura, con la narrazione che pietosamente si arresta, in un momento di intensa umanità, sul limitare della tragica conclusione.

Werner Herzog è da quarant’anni fermo sulle sue posizioni: guardare la natura vuol dire assistere a una spietata lotta per la sopravvivenza. A proposito della foresta, ancora all’epoca di "Fitzcarraldo" (1981) Herzog dichiarava che dove il suo attore-feticcio Klaus Kinski vedeva eros, lui vedeva oscenità, fornicazione, asfissia e soffocamento, "l’armonia dell’oppressione e dell’omicidio collettivo". E’ quindi una strana curiosità quella con cui Herzog, nel suo ultimo documentario, "Grizzly Man", (proiettato nella serata finale del Film Festival di Trento) segue Timothy Treadwell, un personaggio ingenuo, un idealista con addosso un bel po’ di problemi psicologici, un appassionato di orsi. Finirà divorato da uno di essi.

"Grizzly Man" è un ulteriore esempio di come Herzog abbia un fiuto enorme nello scovare dei soggetti dalle grandi potenzialità narrative. Il regista tedesco curiosa tra il centinaio di ore di riprese girate da Treadwell nelle estati trascorse tra gli orsi dell’Alaska, con cui il biondo Timothy entra in un pericolosissimo contatto fisico. Come prima operazione, seleziona e monta questi video, ritagliando le parti che fanno emergere gli aspetti più controversi, sfaccettati e inquietanti del personaggio. Essi non hanno solo a che fare con l’esistenza tutto sommato infelice di un giovane bizzarro, ma ci dicono diverse cose generalizzabili sulla natura dell’uomo, e sul suo rapporto con gli strumenti che ne specchiano l’immagine. La voce di Herzog fa da contrappunto off a queste fonti, con un commento che le giudica, allo stesso tempo, da lontano e da vicino.

Herzog considera Treadwell un ambientalista di città, incapace di riconoscere i confini tra mondo animale e mondo umano e i veri equilibri che regolano la vita nelle foreste. Dovrebbe essere chiaro a tutti che i grizzly non sono orsacchiotti. Solo un bambino cresciuto male può pensarlo. Mano a mano scopriamo elementi che portano in luce il passato, e le motivazioni, di Timothy Treadwell: impariamo che è una generale insoddisfazione esistenziale a spingerlo a nascondersi come un eremita nei boschi, all’inseguimento di qualcosa che lo fa sembrare utile e vivo. Per questo cerca la vicinanza con esseri fra i più potenti della natura, che lui considera buoni, con cui ha confidenza; ma cerca anche un isolamento che lo costringe a riflettere. Non si capisce fino in fondo se sia uno strano modo per trovare quello che vogliamo tutti, la realizzazione personale; o se sia invece solo un modo complicato per suicidarsi.

Treadwell è un film-maker sensibile. Herzog è affascinato dai suoi ciak ripetuti, dalla ricerca dell’inquadratura che funziona, dalla curiosità di lasciare il piano aperto, in attesa di imprevisti, di un baluginio nell’immagine - ad esempio, il casuale e gioioso ingresso in campo di una volpe con i suoi cuccioli. Questa sensibilità artistica avvicina Herzog al personaggio, che si dimostra molto più attraente e complesso di quanto poteva sembrare guardandolo da lontano.

Verso la fine del film, Herzog commenta le riprese che Treadwell ha girato nel giorno della sua morte. Si vede un lungo primo piano del muso di un orso. La camera stringe sugli occhi dell’animale. Per Treadwell in quegli occhi c’è tenerezza, o persino bontà. Herzog, nel suo commento, dice che ci riesce a vedere solo indifferenza, al massimo interesse per il cibo. Nello stesso sguardo di una bestia si può trovare una cosa e il suo contrario. In un’altra ripresa, sempre girata nel giorno della morte, un orso si immerge nel torrente a tarda stagione, subito prima del letargo, in cerca di salmoni morti sul fondo. Treadwell si sofferma su di esso con la sua videocamera. La sequenza può anche sembrare un giocoso balletto acquatico. Ma Herzog ci fa osservare che la realtà è un’altra: quell’orso ha solo fame. Sarà probabilmente lui a sbranare Treadwell, assalendolo nella sua tenda.

Ma uno spettro aleggia su tutto il film: la ripresa (solo audio) della morte di Treadwell. Herzog sceglie di non inserire nel suo film le voci e i rumori di quella morte tremenda. E, con questa scelta, ci fornisce una lezione, di una pulizia esemplare, sul comportamento da tenere davanti alla visione del dolore. L’unica cosa che vediamo è Herzog che ascolta in cuffia la sequenza della morte. E’ ripreso di schiena. Di fronte a lui, una cara amica di Timothy, che non ha mai avuto il coraggio di ascoltare quel nastro, guarda il regista tedesco.

La camera zooma lentamente su di lei. Non scorgiamo la reazione di Herzog, ma la vediamo specchiata nello sguardo pieno di pietas e terrore della donna. In quel momento vediamo un uomo e una donna coinvolti personalmente nella storia che vivono in diretta un dolore. E capiamo che noi siamo estranei. Capiamo che è bene che quella cosa non venga diffusa.

E’ davvero una straordinaria scelta di regia. Werner Herzog, attraverso la sua presenza, il suo orecchio, si fa carico del peso di quel momento drammatico. Il regista, la persona che ci prende per mano per raccontarci una storia, fa per noi da parafulmine: ci rappresenta, scarica su di sé la forza morbosa di quella scena, e in questo modo libera la mente dello spettatore, che si rende conto di quanto inadeguata alla violenza del mondo possa essere la sua voglia di guardare, di vedere tutto senza trovare la saggezza di lasciare, quando occorre, che il male stia fuori campo. Ci rendiamo conto che non c’entriamo davvero con quella morte, che ne siamo solo spettatori; che non era sana, quella nostra curiosità. E quindi è giusto che essa rimanga inappagata.