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QT n. 12, 17 giugno 2006 Monitor

Radio America

Trent'anni dopo Nashville, Robert Altman torna a fare un film sulla musica country: e, pur tra canzoni mielose, ne ha ancora di cose da dire.

La musica country si ritrova attaccati addosso una serie di brutti pregiudizi: quello di essere conservatrice, di dare spazio solo ai sentimenti più privati e individualistici, di continuare a ripetere gli stessi lamenti. Di questo atteggiamento è emblematica la mitica scena di "The Blues Brothers", quando il duo in nero sostituisce in un locale il gruppo country, riuscendo insopportabile alla platea e finendo per aggiungere alla fila degli inseguitori il furgoncino dei musicisti rivali. I patiti del country sono presentati come dei buzzurri in camicia a quadri, ingenui, campagnoli.

E in effetti sono anacronistici, del tutto fuori dal tempo, anche i protagonisti di "Radio America", il film con cui Robert Altman torna a occuparsi di musica country a trent’anni di distanza da "Nashville". Il film inizia con una voce off, in prima persona, pesantemente letteraria, parodia di quelle dei noir. Le luci al neon, i locali, gli abiti, ricostruiscono un’ambientazione anni Quaranta. Seguendo il personaggio cui appartiene la voce ci ritroviamo in un grande teatro. Lì si registra, in diretta, davanti a un’audience, un programma radiofonico. Solo vedendo il pubblico ci accorgiamo di essere nel presente. Perché anche sul palco e nel backstage si respira un’aria antica: la radio è un medium d’altri tempi, e lo è ancor di più se trasmette una musica country morbida, rassicurante, un’affidabile compagnia quando si accende l’autoradio, e nient’altro.

Il ruolo di rappresentante del mondo contemporaneo è affidato alla figlia di una delle cantanti in scena. Ha pensieri suicidogeni, ma di lì a poco finirà per diventare una yuppie. A questa figura puramente funzionale – messa lì per interpretare "la giovane" e la crisi morale del presente – se ne affianca un’altra, una misteriosa donna in bianco che scopriremo essere un angelo della morte. La morte si porta via un cantante dalla voce finita e l’impresario che fa chiudere il teatro, ma non può arrestare lo scorrere del tempo. Questi due ruoli privi di spessore segnalano le mancanze di una sceneggiatura decisamente impressionistica. Ma al regista non interessa tanto mettere in immagini una storia, quanto raccontare un’atmosfera, la luce di un crepuscolo.

Con "Radio America" Altman propone una lunga sfilata di canzoni, esempi del country più sentimentale e mieloso, con testi chiusi nei ricordi familiari e nelle solite sofferenze d’amore. Per uno spettatore che non apprezza il country, il film dev’essere una sofferenza.

Ma Altman, al di là degli stereotipi, vuole mostrarci come, sotto questa patina di appiccicoso sciroppo d’acero, si nasconda una forma artistica capace di dare rappresentanza – oltre che, nella sua vena più grassa, ai soliti, triti, superficiali avvicinamenti e allontanamenti tra uomini e donne – anche a un mondo di sentimenti credibili, cantati in tutta la loro intensità.

Basterebbe mettere sullo stereo una sola canzone di uno dei padri del country, Hank Williams, morto nel retro di una limousine nella notte di capodanno tra il 1953 e il 1954. In Hank Williams le pulsioni del cuore trovano una formulazione semplice e dolce, e, soprattutto, incontrano una voce capace di esprimerle con la coscienza di chi conosce le storie che canta. Un autorevole musicologo, Bob Dylan, scrive che la sua voce è "bella come la sirena delle navi". E aggiunge: "Non avevo bisogno di passare attraverso le sue esperienze per capire di che cosa cantava. Non avevo mai visto piangere un pettirosso, ma me lo immaginavo e mi metteva tristezza". Sta qui il grosso nucleo di interesse di quella musica: propone formulazioni da poetastri degli affari del cuore, e riesce tuttavia a farle sembrare vere, a trasmetterle – ipodermicamente, non certo passando attraverso il cervello – a chi ha voglia di ascoltare.

Perché poi il country, fratello bianco del blues, non è nemmeno così di destra come può apparire. Nel libro "Rednecks & Bluenecks: the Politics of Country Music", Chris Willman mostra quanto sfaccettato sia il panorama politico di quel mondo, con una componente anti-Bush che in modo variegato va dallo storico hippy Willie Nelson all’ex carcerato radicale Steve Earle alle commerciali Dixie Chicks.

"E’ sabato sera e la banda suona. Cosa puoi volere di più?", dice il testo di una canzone nella scaletta di "Radio America". Il film di Altman riesce a trasmettere questo tipo di sensazione. Come se anche il regista credesse che, quando si parla delle cose dell’anima, i discorsi più complicati valgono tanto quanto quelli più semplici. Basta saper girare intorno ai personaggi. Ad Altman, con la sua macchina da presa, viene naturale saperlo fare bene. "Country" vuol dire "campagna", ma anche "Paese", e "Radio America" approfitta di questa ambiguità per trarne un’allegoria leggera, piena di "belle vecchie canzoni". Ognuna di esse esprime un’insopprimibile nostalgia per un’innocenza che esiste solo in queste commemorazioni della sua scomparsa.

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