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Il ricordo di Malga Zonta fra epica e lotta politica

L'eccidio nazista di Malga Zonta attraverso sessant'anni di commemorazioni e polemiche. Prima parte di una riflessione su una vicenda che continua a far discutere.

A prendere sul serio la campagna di demolizione degli ultimi anni, qualcuno potrebbe pensare che la memoria pubblica dell’eccidio di Malga Zonta si sia affermata di recente, come se si trattasse di una tradizione inventata per contingenti fini politici e sovrapposta ai fatti. E’ opportuno, anche ai fini della ricostruzione dell’episodio storico nei suoi concreti contorni, ma soprattutto per cogliere il significato che gli è stato attribuito attraverso il tempo, risalire alla storia della commemorazione.

La circolazione pubblica del racconto divenuto poi canonico degli avvenimenti, l’erezione del piccolo monumento, l’incontro annuale sul luogo dell’eccidio sono documentati in data molto precoce. Una fonte preziosa, sotto questo punto di vista, è il periodico partigiano vicentino "Il patriota", il cui primo numero esce a inizio luglio 1945, a due mesi dalla liberazione. In prima pagina, in taglio basso, troviamo la fotografia di Bruno Viola in divisa da marinaio. Nell’articolo c’è una narrazione degli eventi che sarà poi replicata in altre occasioni e che sappiamo essere scritta da Giulio, nome di battaglia di Valerio Caroti, uno dei comandanti della garibaldina "Garemi". Ufficiale degli alpini; politicamente vicino al Partito d’Azione; buon conoscitore delle montagne che furono teatro della lotta partigiana, uomo del territorio; dopo la guerra dirigente del personale della Lanerossi e poi avvocato. Di ogni personaggio è opportuno tener d’occhio il profilo, se vogliamo recuperare la concretezza di una storia che qualcuno vorrebbe popolata da fantasmi ideologici e non da uomini in carne e ossa. Il testo di Giulio si può considerare un archetipo di ogni racconto successivo e andrebbe analizzato in modo approfondito. Il comportamento dei partigiani uccisi alla Zonta e in particolare del "Marinaio" vi è rappresentato in uno stile influenzato da modelli riconoscibili. La resistenza alle forze soverchianti che effettuano il rastrellamento è scandita, per tre volte, dal grido "Viva l’Italia", rafforzato la terza volta dall’invettiva "Maledetti i tedeschi" che Viola avrebbe proferito prima di morire, raccogliendo le sue forze estreme: il sapore è quello di un racconto esemplare di eroismo risorgimentale, come quelli che popolavano i "sussidiari" per le scuole. In questa versione i partigiani sarebbero stati dodici, di cui sei armati, e la loro risposta al fuoco nemico tanto efficace, nonostante la sproporzione di uomini e di mezzi, da costringere in un primo tempo i tedeschi a ritirarsi "lasciando qualche decina di morti". La dimensione militare dello scontro risulta fortemente sottolineata; tutto il testo sembra risentire di un genere retorico di penetrante diffusione, quello delle motivazioni delle medaglie al valore.

Anche la manifestazione collettiva del ricordo nasce a ridosso degli eventi. La prima celebrazione dell’anniversario è dell’agosto 1945. All’iniziativa del "Gruppo Aziendale Patrioti" Lanerossi di Schio partecipano una settantina di partigiani insieme ai famigliari dei caduti ("Il patriota", 8 settembre). Molto più imponente risulta dalle fonti la commemorazione dell’anno successivo. La cronaca, che citiamo ancora da "Il patriota" (31 agosto 1946) ne restituisce il forte pathos. "Una commozione intensa afferra alla gola, ci rende muti e riverenti, mentre di mano in mano passano le fotografie ritrovate su un ufficiale tedesco, dove si vedono il marinaio e gli altri dinanzi al plotone d’esecuzione". Non è la prima citazione finora rinvenuta di quelle immagini potenti. Il foglio partigiano aveva già pubblicato (23 febbraio 1946) quella presa da destra, dove si vede, di schiena, uno dei soldati che eseguono il rastrellamento.

Il monumentino era stato eretto pochi giorni prima dell’anniversario da una squadra di partigiani di Schio: "E’ una cosa semplice, grezza: pietre simmetricamente sovrapposte con infissa una lapide: porta i nomi dei Martiri. Qualche protesta: si è dimenticato di mettercene uno: quello di un malghese. Domani si riparerà".

Le incongruenze erano più di una, in quella lapide. Mancavano i nomi di tutti i malghesi uccisi insieme ai partigiani (tre), mentre anche tra gli altri nomi vi erano errori, fraintendimenti, omissioni (nel saggio di Simini che citiamo più avanti questo aspetto è trattato in modo esauriente).

La commemorazione sostituiva il rito funebre collettivo che le circostanze tragiche avevano negato. La Messa viene descritta "silenziosa, quasi sussurrata". La dimensione religiosa del ricordo non oscurava peraltro quella politica. Nell’orazione di Elio Busetto si rivendicava con fierezza il significato dell’episodio locale dentro quello storico complessivo della Resistenza italiana, intesa come nuovo e più compiuto Risorgimento. Nel suo discorso si avverte con forza l’amarezza per la denigrazione in atto della lotta partigiana. Gli uomini della Resistenza, a poco più di un anno dalla fine della guerra, si sentono già all’ opposizione.

Sugli anniversari degli anni immediatamente successivi le cronache, tanto della stampa veneta che di quella trentina, sono avare di notizie. Sappiamo della celebrazione del quinquennale dall’"Amico del popolo", il periodico del P.C.I. vicentino: il clima è quello di un paese diviso dalle frontali contrapposizioni della guerra fredda. Non ci fu nemmeno la Messa, nel 1949, perché i vescovi di Trento e di Vicenza non accettarono l’invito dei promotori a celebrarla. L’isolamento sembra esaltare il coinvolgimento emotivo, per la minoranza che quella memoria continua a coltivare. "Un’ansia più forte fa accelerare il passo prima di sparpagliarsi qua e là, tutti vogliono invadere, toccare il cippo, come il devoto sente irresistibile l’impulso di toccare la statua del santo da cui attende il miracolo. Ma per noi quel contatto è il bisogno di attingere forza dai compagni caduti ed insieme il segno tangibile della nostra memoria". La figura di Viola è sottoposta ad una trasfigurazione che ne fa un santo da devozione popolare: "ritorna con la sua casacca di marinaio a sorridere con lo splendore della sua bocca d’adolescente ed il suo sangue è un diadema di stelle rosse: quelle che lo hanno guidato nella marcia verso la gloria degli Immortali".

L’incontro annuale sui prati delle Coe partecipa, inesorabilmente, del declino che coinvolge ovunque le manifestazioni celebrative della Resistenza, in un periodo di crisi verticale del modello dell’unità nazionale antifascista. E tuttavia, nei primi anni ’50, l’eccidio di Malga Zonta si insedia con forza nel racconto pubblico. Vi dà un contributo rilevante la rievocazione del roveretano Lamberto Ravagni, giovanissimo partigiano con il nome di "Libero", pubblicata in una rivista di tradizione moderata come "Studi Trentini di Scienze Storiche" (1950/3). Il racconto di Ravagni, testimone non oculare ma diretto (stava in quelle ore nella vicina Malga Pioverna, riuscì a fuggire quando sentì gli spari), articola in un quadro più vasto la versione di Giulio ed è a sua volta all’origine di buona parte delle ricostruzioni successive. Esso è ripreso ampiamente, nella parte che riguarda il rastrellamento e l’eccidio, nella "Storia della Resistenza italiana" di Roberto Battaglia, fin dalla prima edizione del 1953. E’ attraverso questo libro fondamentale che si afferma definitivamente la lettura eroicizzante della vicenda, elevata a "episodio più luminoso" della Resistenza veneta. Di una dimensione da narrazione epica era tanto consapevole lo stesso Battaglia, da avvertirne esplicitamente il lettore: "Eccone la relazione, esatta in ogni particolare e pure circonfusa in ogni particolare come da un alone di leggenda. Poiché sembra incredibile, se non nel clima dell’epica popolare, che un uomo abbia potuto fare ciò che fece in quell’occasione il ‘Marinaio’".

I giornali tornarono a parlare dell’anniversario in occasione del decennale, nel 1954. Relatore il comunista Nello Boscagli, presentato dall’"Alto Adige" (17 agosto) come "il popolarissimo comandante Alberto delle divisioni Garemi". La cronaca parlava ora dei "quattordici eroi di Malga Zonta", correggendo le cifre di dodici e poi di tredici fornite in fasi successive, e perpetuando ancora l’oscuramento dei malghesi uccisi insieme a loro.

La piena consacrazione istituzionale risale ai primi anni ‘60. Siamo in una nuova fase della storia repubblicana, dopo il luglio 1960 e le proteste popolari contro il governo Tambroni, insediato con l’appoggio del Movimento Sociale Italiano. L’antifascismo è ora una parola largamente condivisa, nel linguaggio della politica, non solo una bandiera della sinistra. Il clima nuovo (siamo agli albori del centro-sinistra) influisce anche sulle forme della commemorazione.

Nel nostro caso, a trasformarle contribuirono avvenimenti d’altra natura. Una parte della piana fu espropriata dall’autorità militare per costruirvi una base missilistica NATO. A questo punto si inserì l’iniziativa del sindaco di Folgaria, Valle, che mise a disposizione la malga perché divenisse monumento storico. Il Ministero della Difesa si assunse il compito del restauro, incaricando il Genio Aeronautico di dare esecuzione ai lavori. La costruzione della base, che ospitò fino alla fine degli anni Settanta armi potenti delle quali poco si poteva sapere, minacciava di soverchiare lo spazio fisico e simbolico della memoria resistenziale. Favorì invece, un po’ paradossalmente, un’evoluzione decisiva in senso inverso.

Nell’agosto 1962 si inaugurò il mutato edificio, con la nuova lapide. Non c’erano solo i partigiani, i famigliari, i compaesani delle vittime, ma anche la Regione Trentino Alto Adige, rappresentata da Remo Albertini, la Provincia di Trento, l’Esercito con alti ufficiali dell’Aeronautica e della Marina. Un rito solenne consacrò un emblematico passaggio di consegne. Tre capi partigiani, con alla testa il leggendario e pittoresco "Tar", comandante del battaglione Ismene nel quale erano reclutati gli uccisi, si recarono alla piramide primitiva, dalla quale erano stati rilevati i resti dei caduti, per trasportarli in un’urna di vetro coperta dal tricolore nella nicchia scavata nella lapide murata sulla malga. All’autorità civile (nel caso a Remo Albertini) fu affidato il ruolo di depositare l’urna nel nuovo loculo, a rappresentare il mandato di custodire quella memoria ("Gazzettino", 13 agosto 1962).

Se nel 1953 la storia di Battaglia aveva inserito Malga Zonta in un posto di rilievo nella narrazione della Resistenza italiana, a distanza di dieci anni essa entra nella letteratura, con "Libera nos a malo" di Luigi Meneghello, pubblicato nel 1963. Vi entra per via della Cattinella, serva presso la famiglia dello scrittore e madre di Giovanni Tessaro, partigiano per pochi giorni e per sempre. Vicini a Malo, il piccolo centro del vicentino che i libri di Meneghello hanno reso famoso, sono Marano, Monte di Malo, S.Vito di Leguzzano, Costabissara, Caldogno, Castelgomberto, Valdagno, gli altri luoghi di origine dei ragazzi morti alle Coe.

Nel libro sulla sua esperienza di partigiano, "I piccoli maestri" (1964), Meneghello descrive da vicino questa leva di giovanissimi contadini affluenti nella Resistenza nell’estate ‘44, con motivazioni più esistenziali che ideologiche. "Qualcosa di mezzo tra gli Aspiranti e la Giovane Montagna", dice delle loro canzoni. "Si vedeva che erano ragazzini bene allevati, puntuali alle messe, anzi certamente capaci di rispondervi di persona, prodotti tipici dei nostri oratori vicentini, queste forge di chierichetti-calciatori e di cantori-alpinisti. Non erano però ragazzi bigotti, anzi allegri e perfino scanzonati: non avrebbero mai detto una bestemmia, ma le brutte parole sì, come i bambini. Il loro interesse per la resistenza era difficile da valutare".

Il figlio della Cattinella ha probabilmente le stesse, germinali motivazioni per una scelta che deciderà il suo destino: "Giovanni era ormai un giovanotto, nel 1944 aveva diciannove anni, e la Cattinella domandava consiglio. Doveva presentarsi il ragazzo? Si poteva lasciarlo andare con questi partigiani con cui voleva andare? Alla fine Giovanni andò con questi partigiani, col nome di battaglia di ‘Zampa’; ed era col reparto della Malga Zonta la notte del 12 agosto. C’è una fotografia dei quindici o venti ragazzotti in fila davanti alla malga, colle mani in alto, un momento prima che i tedeschi cominciassero a sparare; Giovanni è il primo della fila, in primo piano. Sembra stupito, come se non capisse bene la natura del gioco: ha un’ ecchimosi sul viso, probabilmente causata dal calcio di un mitra. La Cattinella che ora abita da sola in due povere stanze, quando non è all’ospedale, è riuscita ad avere questa fotografia, e la tiene in un cassetto insieme con le nostre. Sul comò ha una fotografia di mia madre, sul muro il quadro incorniciato dei partigiani morti, con i piccoli tondi delle teste e i nomi: tra gli altri c’è il partigiano Zampa, Giovanni Tessaro 1925-1944 (…). Ogni anno al 12 agosto va alla malga Zonta; spesso a piedi fino a Schio, prima dell’alba, poi col camion su per i monti. Ascolta i discorsi, depone i suoi fiori".

Sul tema Meneghello torna anche nel secondo "libro di Malo", "Pomo pero" (1974), dove Giovanni è messo - con dolorosa ironia - di fronte ai giovani rivoluzionari della nuova fase. Ancora una volta, per via della mamma: "Qualche volta in agosto per l’anniversario del 12 la portiamo sugli altopiani dove c’è il monumento dei morti della Malga Zonta, e lì vicino una postazione di missili americani; quest’anno sono venuti gruppi di persone nuove con scritte in parentesi e drappi di un rosso nuovo assai vivace, quasi arancione, davvero smagliante; erano giovanotti di città dai modi distinti, donne chic piuttosto veementi, bambini eleganti; Giovanni sparuto stava lì nella malga (c’è l’ingrandimento) con le braccia alzate, le solite ammaccature sul viso…".

Muovendo da queste annotazioni, Alberto Brodesco dilata con efficacia la lettura meneghelliana: "Giovanni nella foto appare leggermente discosto, ai margini di quel gruppo di partigiani. E’ in primo piano, ma sul bordo dell’azione e della guerra civile, come se non avesse davvero capito il perché di quel dramma" ("Il cuore dell’immagine. Luigi Meneghello e una fotografia di Malga Zonta", in "Archivio trentino" 2005/2). Questa presenza "sul bordo" coincide con le bizzarre variazioni che il suo nome subisce nella successione delle tre lapidi (a quelle del 1946 e del 1962 si aggiungerà quella del 1981), come se il ragazzo di Malo dovesse contendere ancora con altri (un Giobatta Tessari?) la sua identità: eppure all’ingresso del cimitero del suo paese si nota facilmente, in alto a sinistra, un’altra lapide, con la fotografia non di un ragazzino sbigottito, ma di un bel giovane in abito da festa. Nome, Giovanni Tessaro, data di nascita, 18 agosto 1925, epigrafe: "caduto per la libertà a Malga Zonta", dedica: "la mamma".

Le disavventure epigrafiche non sono un’eccezione, in questa storia. E non può non colpire la sproporzione tra le parole alte della commemorazione ufficiale e la scarsità di notizie sugli uomini in carne e ossa. Ai partigiani uccisi si attribuiva nei discorsi rituali "statura gigantesca", ma poi si replicavano informazioni nebulose sugli aspetti fondamentali delle loro vite prima del martirio. Le manifestazioni celebrative registrarono costantemente una piccola folla di genitori e di parenti, e tuttavia la prossimità delle memorie famigliari non valse a farle confluire nella memoria pubblica. Non erano facili da raccontare, quelle vite spezzate: vite di operai e braccianti agricoli di un Veneto allora povero, di ragazzi cresciuti tra Azione Cattolica e organizzazioni di regime, in famiglie provate da quattro anni di guerra. Ma ricostruirle ora, anche a riparazione delle crudeltà polemiche degli anni recenti, sarà difficilissimo.

La commemorazione del ventennale fu promossa da un comitato presieduto dal sindaco di Folgaria, Elio Valle. Le cronache misero in risalto una crescente partecipazione ("non meno di duemila persone"), alimentata ancora in massima parte dal Vicentino. Il relatore ufficiale era Ettore Gallo, il celebre giurista che era stato tra i dirigenti della Resistenza veneta. Un intervento di Boscagli, il comandante "Alberto", scatenò la reazione di Valle, che lo interruppe clamorosamente. "La cerimonia, commossa e austera secondo gli intendimenti del comitato, è stata purtroppo turbata dalla speculazione politica di un oratore comunista", scriveva l’"Adige" (18 agosto). L’"Alto Adige" prendeva atto con un certo stupore della presa di posizione del sindaco di Folgaria, secondo il quale "in una commemorazione come questa di Caduti, non si può permettere un intervento in questioni strettamente politiche’" (19 agosto).

Anche in seguito furono proprio "questioni strettamente politiche" ad animare l’appuntamento. L’anno successivo a fare scalpore fu Alberto Sartori ("Carlo"), uno dei personaggi più controversi della storia di per sé ricca di contrasti della "Garemi", di cui era stato commissario politico. "Carlo", in polemica con il suo vecchio partito, il PCI, fin dai primi anni ’60, fu uno degli animatori dell’area cosiddetta marxista leninista. Delle ripercussioni, e del taglio, del suo intervento abbiamo testimonianza in una lettera pubblicata nel memorabile libro autobiografico di Annetta Rech, "Una vita ai Morganti". Scriveva Sartori all’antifascista trentino Giovanni Parolari, nell’agosto 1975: "Ti basti pensare che, per il mio discorso di Malga Zonta del 1965, fu richiesta, da Roma, la mia espulsione dall’Anpi! Criticava quel centrosinistra che ora, dopo oltre 10 anni, persino la dirigenza del PSI considera un errore" (pp. 125-126).

Accentuazioni polemiche di attualità si colgono anche nelle cronache della cerimonia del 1967, oratori ufficiali Boscagli e Canestrini. La prossimità della base missilistica metteva in fisica evidenza, per contrasto, il nesso tra Resistenza e lotta contro l’imperialismo americano ("Alto Adige", 15 agosto).

Le inquietudini, le delusioni, gli irrigidimenti ideologici di una parte della generazione della Resistenza si intrecciarono, negli anni intorno al Sessantotto, con le aspirazioni rivoluzionarie della generazione nuova. "La Resistenza è rossa e non democristiana" è uno slogan che ebbe allora fortuna e che accompagnò una riappropriazione di massa della memoria resistenziale, alimentando una nuova mitologia non accompagnata, allora, da una rinnovata consapevolezza storica. Spunti interessanti in questo senso li offre anche il nostro caso. Nel 1969 ci fu una doppia manifestazione, quella ufficiale promossa dall’ANPI e quella proposta dall’Unione dei marxisti leninisti di Vicenza. Piccole invero l’una e l’altra: 300 persone per la prima; poche decine per l’altra. Scriveva l’ "Alto Adige" (12 agosto): "Poco prima che la cerimonia ufficiale terminasse da Vicenza è giunto un pullman dal quale sono scesi circa 60 marxisti-leninisti: del gruppo facevano parte alcune donne e bambini. Tutti si sono incolonnati, hanno inalberato cartelli con l’effige di Stalin e di Mao, striscioni e bandiere rosse. Quando gli ex partigiani si sono allontanati, essi si sono diretti a piedi, in corteo, verso la lapide, hanno deposto una corona di fiori, hanno lanciato qualche slogan, allontanandosi poi verso un’altura". Dev’essere questa la manifestazione di "giovanotti di città dai modi distinti" di cui scrive Meneghello. In questo caso la rivendicazione integralistica di una resistenza solo "rossa" si traduceva in una dissociazione ostentata. Lotta Continua di Rovereto cercò a sua volta di imprimere nella manifestazione un proprio segno di antifascismo militante. La promozione di un festoso corteo di macchine verso le Coe per partecipare all’incontro annuale è del 1973; il grande manifesto murale dove campeggiava una delle celebri fotografie può essere dello stesso anno o di quelli immediatamente successivi. La scritta che lo caratterizzava era una variante dell’epigrafe dedicata dai suoi compagni ad un giovane militante di Lotta Continua ucciso a Parma, Mario Lupo, carica di volontà di identificazione, ma sicuramente inappropriata ai trucidati alla Zonta:"Sono vissuti per il comunismo sono morti per il comunismo".

(1/ continua. Nella seconda parte, che uscirà nel prossimo numero, gli sviluppi della commemorazione annuale dal 1974 ad oggi e una ricostruzione critica delle recenti polemiche)