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In caccia di denaro sporco

Obblighi anti-riciclaggio: chi deve pagare?

Jacopo Ponticelli

Le stime sull’ammontare di denaro sporco riciclato annualmente nel mondo variano fra i 500 e i 1.000 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra, seppur approssimata per difetto, pari al PIL di un Paese come la Spagna.

Andrei Kozlov, vice-presidente della Banca Centrale della Federazione Russa, recentemente assassinato.

Il tema del riciclaggio, ossia l’attività mirata a mascherare l’origine criminale di denaro attraverso il suo utilizzo in attività finanziarie lecite, è ritornato agli onori della cronaca lo scorso settembre in seguito all’assassinio di Andrei Kozlov, vice-presidente della Banca Centrale della Federazione Russa, che da anni lottava per una maggiore trasparenza del sistema bancario russo. Al di fuori di un caso così eclatante, l’opera quotidiana di contrasto all’attività di riciclaggio è particolarmente complessa. Consideriamo che per leggere questo articolo occorrano mediamente tre minuti: nello stesso lasso di tempo la Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), società belga attraverso cui comunica virtualmente la quasi totalità delle banche commerciali del mondo, registra circa 23.000 transazioni interbancarie, per la maggior parte transnazionali. Come distinguere in questo mare di operazioni quelle connesse ad attività illecite?

E’ facile intuire come le autorità giudiziarie e di polizia finanziaria non siano in grado di monitorare in modo efficace tali volumi di transazioni senza una chiave di lettura. L’ostacolo principale che si presenta loro è infatti risalire ai reali beneficiari delle transazioni stesse, spesso nascosti dietro prestanome o società di comodo, soprattutto quando l’operazione è finalizzata al riciclaggio. Dall’impossibilità di ricorrere esclusivamente a indagini di tipo tradizionale discende quindi l’imposizione dell’obbligo di "disclosure". Con questo termine si intende l’obbligo di rivelare alle autorità competenti le informazioni relative a transazioni "a rischio di riciclaggio". Tra queste informazioni la più importante è ovviamente l’identità dei beneficiari delle suddette transazioni.

Ma quali categorie di soggetti sono in possesso di tali informazioni? E, di conseguenza, su chi può ricadere l’obbligo di rivelazione? Questo è il nocciolo del problema. Due le categorie su cui è possibile far ricadere quest’obbligo. In primo luogo, ovviamente, i beneficiari stessi delle transazioni, che però avranno tutto l’interesse a non rivelarsi come tali. In secondo luogo, gli intermediari che compiono tali operazioni per conto dei reali beneficiari.

Fin dai primi anni ’90 le direttive in materia di anti-riciclaggio dell’Unione Europea hanno fatto ricadere sugli intermediari, categoria che comprende gli operatori creditizi e finanziari e i professionisti (come avvocati e revisori dei conti), l’obbligo di identificare i reali beneficiari e di comunicare alle autorità competenti le transazioni sospette. Di pari passo sono ricaduti sugli intermediari i costi di adeguamento delle proprie strutture e capacità operative agli adempimenti normativi.

La più recente di queste direttive anti-riciclaggio, la cosiddetta Terza Direttiva (Direttiva 2005/60/EC), è stata approvata dall’Unione Europea nell’ottobre 2005. Essa mantiene l’approccio basato sugli intermediari e anzi li carica di ulteriori obblighi, con conseguente crescita dei costi.

I diretti interessati, attraverso le relative associazioni di categoria, non hanno reagito positivamente. Due le opposizioni di fondo. Gli intermediari continuano ad essere oberati di un’azione di monitoraggio delle transazioni compiute dai loro clienti che non spetterebbe loro, ma che gli viene delegata perché le autorità pubbliche non dispongono di informazioni sufficienti per svolgerla in modo efficace. In secondo luogo, solo una piccola parte dei benefici derivanti da questo approccio ricade sulle categorie chiamate ad essere in prima linea nella lotta al riciclaggio, che d’altra parte ne sostengono la gran parte dei costi.

Sulla spinta di tali osservazioni, è nata in seno alla Commissione Europea l’ipotesi di testare, almeno in campo societario, un nuovo sistema di "disclosure" in cui l’obbligo di rivelazione e i relativi costi siano fatti ricadere sui beneficiari reali delle transazioni "a rischio ricilaggio", liberando banche e professionisti dai costi di vassallaggio che oggi sostengono nei confronti delle autorità di polizia finanziaria. A questo proposito la Commissione Europea ha incaricato Transcrime di effettuare un’analisi costi-benefici che metta a confronto questa nuova proposta con il sistema attuale previsto dalla Terza Direttiva.

Malgrado la complessità dell’analisi è evidente fin dall’inizio il nocciolo della questione, e cioè come trovare il giusto equilibrio, nella legislazione europea anti-riciclaggio, tra trasparenza ed efficienza del sistema finanziario.

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