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QT n. 18, 28 ottobre 2006 Monitor

“Babel”

Un racconto di innocenti errori che generano disgrazie e disperazione e in un crescendo che porta a un tragico caos, una dolorosissima mancanza di senso. Il messicano Alejandro Gonzáles Iñárritu, intrecciando abilmente diversi fili narrativi e spazi temporali crea un film angoscioso ed elegante.

Nell’immaginario alla parola “Babele” vengono associati concetti che ruotano attorno a caos, incomprensione, disarmonia. Ma nella mente di Dio, probabilmente, Babele non voleva dire questo. L’episodio della Torre, racchiuso nella Genesi tra due capitoli di discendenze e generazioni, è presentato dall’autore sacro in modo del tutto neutro, senza accezioni negative, di condanna, o positive, di plauso. Di fronte alla Torre, Dio si pronuncia infatti così: “Ecco, essi sono un popolo solo ed hanno tutti una medesima lingua; questo è l’inizio delle loro opere. Ora dunque non sarà precluso ad essi quanto è venuto loro in mente di fare. Venite, scendiamo e proprio là confondiamo la loro lingua, perché non capiscano uno la lingua dell’altro” (Gn 11, 6-7). Nella Bibbia concordata che stiamo consultando leggiamo in nota: “Il nostro episodio […] ci narra lo sforzo di quella gente per rimanere unita, costruendo una torre come punto di riferimento e di collegamento, contro l’ordine di Dio che nella separazione dei popoli vede il progresso dell’umanità”. La confusione delle lingue, la diversità, non è dunque una condanna per la specie umana, ma l’unico modo per aiutarla a crescere. Ma questa è la teoria (anche divina). La pratica si dimostra assai più complessa. Alla parola “Babele” continua a esser collegata non l’idea di una generosa possibilità offerta all’uomo ma la sanzione di un’impossibilità a comunicare, a conoscersi veramente l’uno con l’altro.

È intorno a quest’ultima Babele che Alejandro Gonzáles Iñárritu ha costruito il suo film. Il mondo è un villaggio globale e i mezzi di comunicazione mettono in contatto istantaneo i continenti più lontani. Ma l’ingranaggio, pur esteso world wide, è a continuo rischio di inceppamento. A volte basta un niente a impedire i contatti, a rendere incomprensibili le parole, a sommergerle di rumore. Sembra essere scritto nel destino che il film racconta: è inevitabile che prima o poi qualcosa produca un danno, che si spanderà nel mondo con la stessa facilità con cui si spostano persone, immagini e voci.

Il racconto di Iñárritu è condotto con lo stile che il regista messicano ha voluto adottare anche nelle due pellicole precedenti – “Amores perros” (2000) e “21 grammi” (2003): andirivieni temporale, incroci tra i protagonisti della narrazione, un montaggio apparentemente a random che trova la sua soluzione man mano che il film avanza.

Due turisti americani sono in vacanza in Marocco. Quel viaggio però diventa improvvisamente un dramma, di cui sono involontari motori dei ragazzini, custodi di capre. Nel frattempo, in California, la tata che bada ai figli della coppia porta i due bambini al matrimonio del figlio. In Messico, al di là del confine. Un altro filo della trama ci conduce fino in Giappone... È la sfortuna che diventa tragedia a costringere tutte queste vite a sfiorarsi.

Gli avvenimenti sommano una fatalità all’altra, creando una scia malata, che si avviluppa. Ogni errore diviene pesante, nessuna mancanza viene perdonata dal destino, si creano tutte le premesse per l’incomprensione e la diffidenza. A Babele, come in “Babel”, non si riesce proprio a percepire, in tutto questo, un disegno divino che miri al progresso dell’umanità. Ogni prospettiva a lungo termine appare anzi svuotata di senso.

Dal punto di vista narrativo, il regista sa gestire perfettamente questa confusione. Tiene in mano i fili, li annoda e poi li scioglie, visualizza con modi sicuri la sceneggiatura scritta con l’abituale maestria da Guillermo Arriaga. Il caos riposa su una struttura solida, al cui centro è collocata una scena attorno alla quale il film ruota in modo ritmico, violento ed elegante allo stesso tempo.

Una pallottola, sparata dai due bambini marocchini, penetra nel pullman dei turisti occidentali, e ferisce al collo l’americana, la madre dei bambini affidati alla baby-sitter messicana. Il modo in cui la sequenza è girata rivela l’innegabile talento visivo di Alejandro Gonzáles Iñárritu. Lo spettatore conosce già quello che sta per accadere. La sua tensione è al massimo, i suoi occhi attenti. Ecco il proiettile che spacca il vetro. È un attimo. La pallottola trafigge il corpo, velocissima, inesorabile, guidata da un destino di cui lo spettatore è complice. Non c’è nessun indugio da parte del regista, nessuna volontà di rallentare, di stilizzare quel momento, che colpisce con la semplice e brutale energia di una pallottola sparata per sbaglio.

In un modo o nell’altro, tutti finiscono quindi per pagare le colpevoli conseguenze delle proprie azioni innocenti. La politica rimane sullo sfondo, e con essa la coscienza che la torre di Babele sorgeva là, tra il Tigri e l’Eufrate, dove la storia continua a cercare un motivo per dare ragione al caos.

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