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Caporalato in val di Non

Paolo Burli Antonio Rapanà

La Polizia e la procura di Rovereto hanno scoperchiato la pentola del malaffare che specula sulla vita dei migranti e li costringe in schiavitù. Anche da noi serve una presa di coscienza collettiva. In Trentino, come in Puglia, la tratta degli schiavi dilaga e nessuno ne sa nulla. Ora la nostra preoccupazione va alla sorte dei 40 immigrati clandestini.

Le indagini continuano e siamo certi che saranno rigorose e approfondite. Poi le aziende coinvolte dovranno essere giudicate con severità: cercare il profitto sulla pelle di persone prive di diritti e spogliate di ogni dignità è intollerabile.

Per la Cgil il fenomeno è preoccupante: dopo gli schiavi nel cantiere edile a Marilleva, quelli nei campi di mele della val di Non. E’ la prova che lavoro nero e schiavitù proliferano grazie alle norme assurde della Bossi-Fini. Ecco dove si annidano persone che nelle becere campagne di odio degli imprenditori-politici dell’intolleranza rappresenterebbero una minacciosa invasione alla nostra quiete. Si annidano nei cantieri, nelle piccole imprese, nelle nostre case. Clandestini non per una naturale propensione a violare la legge e a delinquere, ma costretti all’ingresso irregolare da norme irrealistiche e assolutamente inefficaci: forza lavoro privata di diritti e dignità, utile e conveniente per imprenditori disonesti e senza scrupoli che rappresentano la vera minaccia ad una comunità civile e rispettosa della legge. Il fatto più preoccupante che emerge da quest’ultima vicenda di sfruttamento è che questi nuovi schiavi erano vittime di una vera e propria organizzazione criminale di infame commercio di lavoratori immigrati.

E’ ora che anche in Italia venga introdotto il permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro a favore di lavoratori immigrati che denunciano gli sfruttatori. E’ l’unico modo per spezzare la catena del ricatto. Oggi chi perde il lavoro o non ne trova uno cade nella rete della schiavitù e dell’assoluta privazione di ogni minimo diritto. Ma serve anche l’impegno delle istituzioni locali, la Provincia in primis, per aumentare la vigilanza e porre un argine al fenomeno.

Alle associazioni imprenditoriali chiediamo di uscire dall’omertà: i 6 imprenditori agricoli squalificano il lavoro e la fatica di tante aziende oneste in Trentino. Sono loro i primi a dover denunciare le mele marce.

Ora resta incerto il destino dei clandestini costretti a lavorare in nero. Sono le vittime di un’organizzazione criminale e per questo non possono essere espulsi. Dopo il danno subirebbero la beffa. Serve un segnale: chi si libera dalla schiavitù deve essere tutelato dallo Stato.

Paolo Burli, segreteria Cgil
Antonio Rapanà, Coordinamento stranieri