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QT n. 19, 11 novembre 2006 Servizi

Ma l’editore puro non basta

Nell’editoriale di presentazione al pubblico, il nuovo direttore de L’Adige, Pierangelo Giovanetti, ha concluso in questo modo: “Il mio privilegio è... soprattutto di poter contare, caso forse unico in Italia e tra i pochi in Europa, su un editore ‘puro’, senza interessi economici e politici in gioco da difendere e promuovere attraverso il quotidiano, condizione impagabile di libertà e garanzia preziosa di autentico giornalismo”. Con queste parole fanno il paio quelle del giornalista e mass-mediologo Gabriele Mastellarini (autore di “Assalto alla stampa”, Dedalo, 2004), il quale ha osservato che, in Italia, “l’unico editore puro è il proprietario de L’Adige, il conte Francesco Gelmi di Caporiacco, un avvocato milanese con il ‘pallino’ del giornalismo. Il resto del panorama italiano, se si fa eccezione per i giornali di cooperativa (tra i quali spicca Il manifesto), è contraddistinto da un numero svariato di imperi editoriali, spesso multimediali (alla carta stampata associano anche radio e televisioni) dietro i quali non è assolutamente difficile identificare il padrone che, con il passare degli anni, è sempre più pronto ad entrare in redazione”.

Senza volermi riferire direttamente all’esperienza de L’Adige, mi sembra opportuno fare alcune precisazioni riguardo alla garanzia di qualità dell’informazione che la presenza di un editore puro garantirebbe. Le cose non stanno esattamente così.

Intanto, cos’è un editore puro? Si tratta di un soggetto che non ha interessi extraeditoriali, ovvero possiede un’impresa editoriale senza essere legato a partiti politici e senza avere il possesso (maggioritario o minoritario non importa) di alcun’altra impresa. L’editore puro non ha interessi in alcun settore che non sia quello editoriale. Indubbiamente, rispetto a un editore che, oltre a editare un quotidiano, sia capo di un partito politico oppure produca macchine o tiri su case, l’editore puro rappresenta una maggiore garanzia d’indipendenza per l’informazione delle testate da lui edite. Ma rappresenta davvero una garanzia assoluta?

Per essere più chiaro, mi rifarò a due esempi storici. Nel 1974 Angelo Rizzoli acquistò col padre Andrea la società editrice del Corriere della Sera dall’ultima rappresentante della famiglia Crespi, da un anno comproprietaria del quotidiano insieme al padrone della Fiat Gianni Agnelli e al petroliere Angelo Moratti. Rizzoli, che aveva interessi solo nell’editoria, si era presentato come l’editore puro che il Corriere non aveva mai avuto. Proprio con Rizzoli, negli anni successivi, in via Solferino sbarcarono Licio Gelli e la loggia massonica P2, intenzionati a fare del primo quotidiano italiano uno dei principali strumenti di realizzazione di quel Piano di Rinascita Democratica che per fortuna alla fine fallì. La “purezza” di Rizzoli non bastò al Corriere per evitare di vivere il periodo più buio della sua storia.

Avanziamo di circa un decennio, e dal Corriere passiamo a la Repubblica. Dalla sua fondazione (1976) fino al 1989, il quotidiano di piazza Indipendenza fu edito da una società controllata da due editori purissimi, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, quest’ultimo anche direttore della testata. Per i primi anni, la Repubblica si presentò come felice anomalia nel panorama della stampa quotidiana italiana: riuscì a conquistarsi uno spazio sempre maggiore e un ruolo sempre più importante senza compromettere la sua identità di “giornale dei giornalisti”, come lo chiamò uno dei più valenti di loro, Giorgio Bocca. Ma poi, verso la metà degli anni ‘80, accadde qualcosa che minò quell’identità, ed è lo stesso Bocca ad averci spiegato cosa in uno dei suoi testi migliori, Il padrone in redazione, scritto nel 1989. Accadde che Scalfari e Caracciolo cominciarono a inseguire le sirene del successo commerciale, a imbottire di gadgets e giochi a premio il loro quotidiano, impegnati com’erano nella gara ingaggiata col Corriere della Sera per assicurarsi il primato nazionale delle vendite. Bocca ha visto nella partecipazione a quella gara le regioni del progressivo scadimento della qualità dell’informazione fornita da la Repubblica. A proposito dell’entusiasmo di Scalfari per l’incremento delle vendite, Bocca ha scritto: “Dovevamo essere soddisfatti perché avevamo avuto un grande successo per ragioni estranee al giornalismo?... Chi è diventato giornalista per produrre informazioni perché dovrebbe gioire se ha successo la produzione delle lotterie?”.

Questi due episodi insegnano che l’editore puro non garantisce automaticamente l’indipendenza e dunque la qualità dell’informazione. Non basta un editore privo di interessi fuori dal settore editoriale. Ci sono anche altri fattori che possono compromettere l’esercizio dell’attività giornalistica. Rizzoli, nonostante si vantasse di essere un editore puro, evidentemente dava un’interpretazione del concetto molto sui generis: sta di fatto che si legò segretamente a Gelli, e questo legame fece del Corriere un megafono della P2, altro che indipendenza!

Ma è l’episodio de la Repubblica a dover essere preso in ancor più seria considerazione. L’errore di Scalfari fu di tutt’altro genere, ma non meno pesante: “Credere che saremmo riusciti a conciliare, a padroneggiare le due cose, il giornalismo nobile con il marketing, il giornale dei giornalisti con il giornale-industria”.

E’ proprio quest’ultimo il rischio più serio che continua a correre l’informazione anche quando ha alle spalle un editore puro: il rischio che essa diventi lo strumento per una caccia al pubblico finalizzata al successo economico dell’impresa editoriale. L’editore puro può vedere nell’aumento del numero di lettori il fine principale, o comunque essenziale, della sua attività. Che questo avvenga è, peraltro, più probabile proprio nel caso degli editori puri che non in quello degli impuri. Più pubblico significa più ricavi, diretti o indiretti. Diretti, perché il pubblico paga per l’informazione che riceve. Indiretti, perché il pubblico attira tanti più inserzionisti pubblicitari quanto più è numeroso.

Le regole del marketing editoriale sono studiate apposta per consentire l’incremento del pubblico. Colui che più compiutamente di ogni altro, in Italia, ha teorizzato la necessità del marketing applicato all’attività giornalistica, Gianluigi Montresor, ha scritto: “E’ il lettore-acquirente il giudice ultimo e supremo dei comportamenti del giornalista... Il professionista di marketing deve semplicemente... lavorare per l’allargamento del proprio target, simpatico o antipatico che sia... L’approccio di marketing consiste nel riconoscere il proprio target e nell’assecondarlo”.

E’ evidente che un tale approccio rischia di portare l’informazione ad appiattirsi sui gusti medi del pubblico. E questo è il rischio maggiore per un giornalismo che, per quanto finanziato da un editore puro, non potrebbe più definirsi indipendente, perché la sua autonomia sarebbe minata dal condizionamento più subdolo, quello che condiziona tutti i venditori: la necessità di piazzare la merce.