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QT n. 22, 22 dicembre 2006 Monitor

“Grido”

Pippo Delbono e la sua ultima, difficile sfida: trasferire nel cinema il suo teatro, fattp delle vicende e della presenza scenica di "attori" presi dalle strade e dai manicomi. Un azzardo; ma riuscito.

Nell’ultimo numero, parlavamo in tono critico di una produzione cinematografica della Provincia di Trento che giudicavamo modesta e inutilmente localistica. Bisogna saper dunque apprezzare un altro finanziamento provinciale che investe in un film che non aveva trovato una produzione tradizionale proprio per il suo essere un oggetto spigoloso, difficile da definire. Un oggetto “artistico”, con quel pizzico di elitismo di cui a volte il termine si fregia.

Pippo Delbono e Bobò nella Centrale di Fies.

Il film è “Grido” e l’autore Pippo Delbono, regista e attore teatrale ospitato molte volte al festival Drodesera – co-produttore della pellicola e mediatore tra Delbono e la produzione pubblica. A teatro, Delbono e la sua compagnia hanno saputo mettere in scena opere radicali, comunicative al punto da permetter loro di essere apprezzate al di fuori dei confini nazionali: la difficoltà della mediazione linguistica viene superata dal valore di verità di cui sono caricati i corpi degli attori.

I protagonisti di Delbono sono presi ai bordi delle strade, o portati via dai manicomi. La loro forza è quella di chi non recita una parte, ma si mostra, orgogliosamente, per quello che è. La riuscita dell’operazione sembra sorgere da un incrocio di vettori: l’acquisita autoconsapevolezza di essere attori è certo esibita, ma la qualità artistica che si viene a creare fa dimenticare ogni accenno di vanità. L’attore finisce così per giocare con le regole dello spettacolo, concedendo alla rappresentazione molta parte della propria vita, ma trattenendo allo stesso tempo per sé tutto quello che è personale e privato. La spettacolarizzazione è sempre posta in secondo piano da un interesse superiore dovuto alla sincerità del racconto e al rispetto delle storie e delle singole esperienze di vita.

Non era facile pensare di stampare su pellicola questa impressione di verità che comunica il teatro di Pippo Delbono. La sfida, sulla carta, sembrava troppo grande. Non è forse la presenza fisica a far sentire così vicino al pubblico il cuore di quelle vicende? “Grido” ci dimostra che la forza dei personaggi dipende non tanto dal contatto ma dall’intensità degli sguardi. O dalle ombre allungate che seguono, anche in pellicola, quelle figure.

Per girare il film è stata messa a disposizione di Pippo Delbono la Centrale idroelettrica di Fies. Ma “Grido”, pur essendo girato in parte in Trentino, richiama il territorio solo una volta, all’inizio del film, in modo ironico. L’introduzione è fatta da uno degli attori di Delbono, che guardando in macchina sproloquia simpaticamente, fra le altre cose, sulla bellezza del Trentino. La committenza si deve accontentare di questo accenno, che non ha molto in comune con una pubblicità dell’APT.

Il resto del film è un’autobiografia un po’ astratta. Pippo Delbono racconta la sua vita da uomo di teatro per accenni impressionistici, scegliendo parole che si avviluppano, cercando luoghi, incontri. Il più importante dei quali è con Bobò, nel manicomio di Aversa, dove Delbono aveva allestito una recita. Come dice Delbono nel film: “E quel piccolo uomo mi chiedeva in silenzio di portarlo via di lì con me”. Li vediamo, poche inquadrature dopo, sul tetto di un pullman a fare sightseeing in giro per Napoli. Tutti e due con camicie hawaiane, tutti e due con occhiali da sole e berretti da baseball. Si crea un legame speciale, un’empatia che è di gran lunga più grande della semplice somma di due persone.

Il momento più bello del film è quando Bobò – dopo una decina d’anni di tournée con la compagnia di Pippo Delbono – torna ad Aversa, nel posto in cui era stato rinchiuso per cinquant’anni. Il manicomio è abbandonato. Il suo spazio concentrazionario si mostra, in rovina, come relitto di un passato sbagliato. In quell’edificio, Bobò si muove con ovvia sicurezza, ma senza commozione. Come se non ci fosse nessun collegamento tra quel presente, fissato nel film, e la sua memoria. Con Bobò, arriviamo nei bagni del manicomio, che allineano fianco a fianco decine di vasche da bagno scrostate. Sono inquadrature estetiche, di quell’estetica del brutto, sporco, usato, intoccato o intoccabile con cui Delbono costruisce tanta parte dei suoi discorsi artistici. Ma il punto di vista da cui quell’estetica proviene è sinceramente interno alle cose che racconta, e il film rimane quindi libero e lontano da ogni accusa di formalismo.

In modo strano, lo spazio abbandonato della casa psichiatrica si sposa spontaneamente con quello della centrale di Fies. Lo spazio del lavoro e quello della follia, legati insieme dal cinema di Pippo Delbono, trovano un tramite, la comunicazione artistica, che li riassume e li supera. Alla fine del film, nessuna domanda di partenza è risolta: non si sa niente in più su come l’arte possa salvare una vita, né si è imparato a leggere negli occhi di Bobò, che rimangono profondi, misteriosi e interroganti.